Dal 2006 il World Economic Forum pubblica ogni anno il Global Gender Gap Report, con cui valuta la parità di genere in un numero crescente di Paesi (l’ultimo ne censisce 153), in base a quattro parametri: partecipazione al lavoro, istruzione, salute e speranza di vita, rappresentanza politica.
La posizione dell’Italia, pur oscillando, è sempre stata molto bassa, non solo rispetto a Paesi notoriamente all’avanguardia per parità di genere, come Islanda, Svezia, Norvegia, Finlandia, sempre ai primi posti, ma anche rispetto ad alcuni Stati del Sud America (Argentina, Perù, Venezuela) e dell’Africa (Rwanda, Burundi, Uganda).
Nel 2008, con Berlusconi, eravamo all’84simo posto, nel 2010 e 2011 salimmo al 74simo, nel 2012 giù all’80simo, poi su fino al 41simo nel 2015, la più alta posizione mai raggiunta dall’Italia, per calare di nuovo al 76simo posto nell’ultimo Report sul 2019. Da cosa dipendono le fluttuazioni? Ci ha sempre tenuti bassi soprattutto la partecipazione al lavoro. Ciò che invece ci ha fatti altalenare è la rappresentanza politica. Vediamo.
Partecipazione al lavoro. Molte statistiche confermano la situazione economica disastrosa delle donne italiane. Secondo l’ultimo studio Eurostat, in Europa nel 2019 la percentuale di donne occupate fra 20 e 64 anni era il 67,3%, mentre gli uomini erano il 79%; in Italia invece le donne fra 20 e 64 anni che lavoravano erano il 53,8%, gli uomini il 73,4%. Perciò in Europa eravamo al penultimo posto, prima solo della Grecia. Questi dati peggioreranno – facile prevedere – dopo la crisi economica dovuta alla pandemia, che di nuovo pagheranno più le donne degli uomini, come quella del 2008.
Rappresentanza politica. Ai tempi di Berlusconi, nella XVI legislatura, le parlamentari erano circa il 20% del totale e, su 65 ministri, viceministri e sottosegretari, circa il 17% erano donne. Gli anni in cui eravamo al 41simo e 50simo posto nel Gender Gap Report furono quelli in cui Renzi introdusse un numero pari di ministri donne e uomini, primo e finora unico nella storia della Repubblica. Quel governo però cominciò con il 50% di ministre ma, dopo vari “rimpasti”, chiuse al 31%.
Con la XVIII legislatura, nel 2018 la percentuale femminile in Parlamento è arrivata al 31%, il massimo da quando è nata la Repubblica. Ma è un miglioramento parziale, perché quelli che decidono sono sempre in gran maggioranza uomini. Con il Conte bis, su 22 ministri 8 erano donne, cioè il 36%, ma tutti i comitati di esperti nominati da Conte sono stati soprattutto – o solo – maschili. Con Draghi la situazione è un po’ peggiorata: solo 8 donne su 23 ministri, cioè circa il 34%.
Perché le donne non reagiscono? È una domanda che viene spontanea, a cui si può obiettare che non è vero, perché le donne scendono in piazza a ripetizione. Fra il 2008 e il 2011, quando nacque il comitato “Se non ora quando” si parlò addirittura di rinascita neofemminista o postfemminista, che culminò il 13 febbraio 2011, quando oltre un milione di persone invase circa 250 piazze in Italia e decine nel mondo. Ma le mobilitazioni successive hanno raccolto meno manifestanti e ottenuto poco o niente: nel 2016 c’è stato il movimento “Non una di meno”, nel 2018 il #MeToo, nel 2019 le proteste contro il ddl Pillon sull’affido condiviso, nel 2020 il “Dateci voce” contro i comitati tecnici tutti maschili.
Tutto ciò è niente, rispetto al femminismo degli anni ’60 e ’70, che portò a conquiste come la legalizzazione dell’aborto, l’istituzione del divorzio, la diffusione dei metodi anticoncezionali, la creazione di asili nido. È come se da allora le italiane dormissero un lungo sonno, con risvegli brevi e leggeri, durante il quale sognano che, grazie al femminismo storico, la parità di genere sia stata raggiunta. Il che purtroppo non è.
Giovanna Cosenza, Professoressa ordinaria in Filosofia e Teoria dei Linguaggi presso l’Università di Bologna.