E festeggiamo anche quest’anno la Festa della Donna. Festa? Rammentavo che l’8 marzo si celebrasse per ricordare una tragedia. E allora che non sia più corretto dire che l’8 marzo si commemora la donna? Sicuramente è meno giubilante ma più realistico. E per certi versi quella tragedia non è mai finita. Nel lavoro, nella società, in famiglia.
Un giorno all’anno, tutti gli anni, ci si spertica nell’ode alla donna, a quanto è brava, quanto è eroica nella distribuzione del proprio tempo che divide fra la cura della famiglia, del lavoro, di sé stessa, degli altri. Ecco, il lavoro. L’Italia è uno strano Paese, è il Paese in cui le donne sono numericamente più scolarizzate dei loro coetanei (Rapporto Censis: 56% dei laureati sono donne; 59,3% nei dottorati, corsi di specializzazione o master post-laurea), e qualitativamente hanno votazioni più elevate sin dall’inizio del percorso scolastico.
Ma è anche il Paese dove, al momento dell’ingresso al mondo del lavoro, il merito conseguito nel percorso formativo svanisce come neve al sole e le proporzioni si modificano bruscamente e radicalmente. Il primo dato è l’altissima percentuale di disoccupazione femminile: secondo l’Istat la metà delle donne nel 2020 non lavorava, vale a dire una donna su due e di quella donna su due la massima parte svolge lavori impiegatizi, una parte minima è quadro e solo il 3% dirigente, per lo più della Pubblica Amministrazione. Nel privato siamo poco oltre il Medioevo.
Dunque, se all’inizio del percorso lavorativo le percentuali si differenziano di poco (le donne sono circa il 48% del totale: Reserch of Women in the Workplace 2019), è negli avanzamenti di carriera che la forbice raggiunge ampiezze notevolissime. E allora via, festeggiamo la donna nel Belpaese che fra i Paesi dell’Occidente è quello in cui il maschilismo lavorativo, professionale e istituzionale è quello messo peggio.
Non a caso l’Italia nel 2020 si è collocata al 76simo posto per la disparità di genere nel mondo del lavoro (Global Gender Gap Report 2020 del World Economic Forum). Peggio di noi solo Grecia, Malta e Cipro. Viva la donna, viva l’8 marzo. Eppure, a questo primato di intelligenze non corrispondono incarichi di rilievo. Se pensiamo che gli Stati del Nord Europa hanno riservato tradizionalmente ruoli importanti a chiunque li meriti, uomo o donna non fa differenza.
Pensiamo a Germania, Estonia, Finlandia, Norvegia, Gran Bretagna, Islanda, Lituania, o al fatto che nell’altro emisfero, in Nuova Zelanda, ad esempio, il primo ministro è una giovanissima signora, anzi la più giovane premier al mondo, Jacinda Ardem, eletta addirittura recentemente per il secondo mandato, avendo solo 37 anni alla prima elezione.
Con questi esempi alla mano non possiamo, noi donne, che avvilirci: in Italia non è la capacità che conta, ma il genere. Non a caso in Italia dopo oltre 70 anni di democrazia mai un primo ministro donna (figurarsi un Presidente della Repubblica), e solo da due anni abbiamo un presidente del Senato donna, seconda carica dello Stato e supplente del Capo dello Stato.