Il processo dovrebbe essere considerato da tutti il luogo in cui si fa giustizia, si riparano i torti, un luogo di apertura mentale e di avanguardia sociale.
Il processo è spesso, invece, percepito come il luogo ove il forte manifesta il suo volto più feroce, schiacciando chi non ha mezzi per difendersi, il braccio dei governanti ed esso stesso espressione di potere… o almeno così era in passato.
Esistono da sempre due archetipi di giustizia, uno materno e l’altro paterno; il primo che guarda al futuro, il secondo ancorato a concetti superati.
E se è vero che quello paterno, più punitivo, è nelle sue caratteristiche estreme un retaggio del passato, non stupisce che fino ad un tempo piuttosto recente le donne fossero escluse dal concorso in magistratura; anzi, esisteva una diffusa idea di una presunta superiorità intellettuale della metà maschile del mondo, che comportava un giudizio di incapacità dell’altra metà di celebrare processi e irrogare condanne.
Nel 1957 il Presidente onorario della Corte di Cassazione Ranelletti – dunque non un giudice qualsiasi: il vertice della magistratura dell’epoca – scriveva infatti che la donna ″è fatua, è leggera, è superficiale, emotiva, passionale, impulsiva, testardetta anzichenò, approssimativa sempre, negata quasi sempre alla logica e quindi inadatta a valutare obiettivamente, serenamente, saggiamente, nella loro giusta portata, i delitti e i delinquenti”.
Non si sa se ridere o piangere di fronte a queste parole, ma occorre fare i conti con la realtà: questa era la situazione all’epoca e bisognerà attendere ancora qualche anno, fino al 1963, per l’entrata in vigore di una legge che abrogando il divieto consentì alle donne di partecipare al concorso.
Qualche mese dopo le prime otto donne magistrato prendevano servizio, tra la malcelata diffidenza di colleghi e avvocati, oltre che della stragrande maggioranza dei vincitori maschi dello stesso concorso.
Oggi sembra di essere, fortunatamente, in un altro pianeta: da qualche anno è avvenuto il sorpasso quantitativo, poiché regolarmente il concorso viene vinto più da candidate donne che da candidati uomini e le donne magistrato sono attualmente il 54% del totale. Il dato sembra ormai irreversibile e la forbice destinata ad aumentare sempre di più: la magistratura diventerà presto, a quanto pare, uno dei mestieri a prevalente componente femminile, come l’insegnamento.
Quali le ragioni di questa preponderanza? Secondo alcuni, le donne si iscrivono più degli uomini al concorso in magistratura, perché fare il giudice è considerato un lavoro più gestibile di altri per chi ancora oggi è costretto a fare i conti con la cura dei figli ed altre incombenze domestiche che, in barba alla parità dei ruoli, ricade per buona parte ancora sull’universo femminile.
Ma forse la spiegazione è più banale, anche se non piacerà ai maschilisti (se esistono ancora): per accedere alla magistratura occorre superare un concorso molto difficile…. E le donne sono mediamente, ahinoi, più brave dei maschietti, più determinate, più concentrate sull’obiettivo, più talentuose.
Tutto bene allora, su questo fronte?
Non proprio: le manifestazioni di sessismo strisciante non sono purtroppo ancora scomparse nelle aule giudiziarie, dove le parti si rivolgono spesso alle giudici chiamandole “signora” o “signorina”, come a voler inconsciamente disconoscerne il ruolo e persino il titolo di studio, fenomeno che non si ricorda sia mai accaduto quando a sedere sullo scranno è un rappresentante del sesso maschile.
Accade ancora, poi, nei Tribunali e nelle Procure che il Capo dell’ufficio commenti l’arrivo di una collega fresca vincitrice di concorso con il malcelato disappunto di chi teme di dover fare i conti con lunghe assenze per maternità, come se questo non fosse un sacrosanto diritto di tutti i cittadini.
Anche perché nel nostro Paese non è previsto, come in altri stati, un sistema di ammortizzazione degli effetti delle assenze con sostituzioni e ripartizione del lavoro, sicché si finisce con il colpevolizzare la collega, più o meno esplicitamente, nella assurda speranza che rinunci a fare figli in nome della carriera o della semplice benevolenza del capo.
Va meglio, a quanto pare, nei rapporti tra colleghi, dove la voce delle giudici è da tempo considerata non più un fiato minore ma semplicemente e meravigliosamente la voce di un magistrato tout court.
Il problema sembra invece sussistere ancora a livello dirigenziale: nonostante le donne come detto siano ormai la maggioranza dei magistrati, esse rappresentano una minoranza tra i dirigenti (presidenti di Tribunale e Presidenti di Sezione, Procuratore Capo e Procuratori Aggiunti): i comandanti e ufficiali di questo anomalo esercito civile declinano l’esercizio del potere ancora, per la maggior parte, dal punto di vista maschile.
Difficile stabilire le ragioni di questo squilibrio… gli ottimisti (per lo più, maschi) credono che la effettiva parità in magistratura sia una conquista ancora relativamente recente, sicché solo per un motivo anagrafico non se ne è avvertito l’effetto fino ai piani alti, dove si arriva in genere con un’anzianità molto avanzata.
I pessimisti (per lo più, donne) ribattono invece che questa disparità di accesso ai posti che contano dimostra che la parità non esiste ancora.
E a chi ribatte che sono le donne a non fare domanda (se non in misura molto inferiore agli uomini) per i posti direttivi e semidirettivi, perché meno brutalmente competitive o impossibilitate a dedicarsi al lavoro con l’accanimento che ci vuole per fare carriera (per le ragioni dette sopra) propongono come rimedio le mitiche “quote rosa”.
Di fatto, a dispetto delle tante luci, il processo è ancora un luogo con delle ombre, da questo punto di vista.
Fioriscono – e questo è un bene – studi e riflessioni sul linguaggio ancora troppo sessista, a volte inconsciamente, di decisioni e della stessa conduzione dei processi.
Tutto questo mentre il mondo cambia, irreversibilmente, e oltre alle donne magistrato aumentano ogni giorno le donne protagoniste degli altri ruoli connessi al mondo giudiziario.
E non è più una scena rara o che desta meraviglia assistere a processi in cui tre donne siedono sullo scranno più alto come giudici del Tribunale davanti a un Pubblico Ministero donna e ad avvocatesse donne, magari assistite da una donna cancelliera e in cui sono chiamate a deporre come testimoni ufficiali donne della Polizia Giudiziaria e donne come perito o consulente tecnico.
In definitiva, l’unico ruolo processuale in cui il primato maschile sembra inattaccabile è quello dell’imputato, con percentuali che per i delitti a base violenta supera tristemente il 90 %…. davvero un primato poco invidiabile.