La sentenza del Consiglio di Stato mette fine alle querelle sui corsi di studio universitari interamente in lingua straniera. Si attende la posizione del ministero
Da una parte l’esigenza di tutelare la lingua italiana, fortemente svilita negli ultimi anni. Dall’altra favorire il processo di internazionalizzazione degli atenei, progettualità promossa e finanziata dal ministero dell’Istruzione. Si gioca sul filo del rasoio la partita che vede contrapposti il Politecnico di Milano, reo – a dire della magistratura amministrativa – di aver promosso corsi di laurea e dottorati interamente in lingua inglese, e l’Accademia della Crusca, lo storico istituto fiorentino custode della purezza della lingua italiana.
In mezzo ai due contendenti il ministero di viale Trastevere, che in presenza di un vuoto politico non riesce a prendere una definitiva posizione in merito alla diatriba, ovvero se bandire del tutto i corsi universitari in lingua straniera o trovare una soluzione capace di garantire una formazione sempre più a prova di futuro.
La vicenda ha inizio nel 2012 ma gli strascichi si sono protratti sino ai giorni d’oggi. Al centro della scena il Politecnico di Milano, il prestigioso ateneo presente in tutte le classifiche mondiali in tema di eccellenza universitaria. Proprio per dare una maggiore configurazione alla rilevanza sopranazionale, il Senato accademico decise di aumentare l’internazionalizzazione del corpo docente in modo da assicurare «almeno 100 insegnamenti tenuti da docenti stranieri», tramite appositi corsi di lauree magistrali e dottorati di ricerca «esclusivamente in inglese».
Le reazioni da parte di insegnanti e discenti non si fecero attendere, criticando il provvedimento ed evidenziando i forti contrasti con il principio della libertà di insegnamento previsto dalla Costituzione, insieme alla possibile discriminazione su base linguistica, in violazione del principio di uguaglianza di cui all’art. 3 della stessa Carta costituzionale.
Ma da Roma non arrivarono veti o obiezioni, e così il ministero diede il proprio placet, approvando i piani di studio del Politecnico senza nulla eccepire. La soluzione al dilemma doveva passare inevitabilmente dalle carte bollate. A dar man forte alla protesta è intervenuto prima il TAR della Lombardia che nel 2013 ha disposto l’annullamento dei corsi, sentenza confermata anche in sede di appello da parte del Consiglio di Stato quale mese fa. Nel mezzo un intervento della Corte Costituzionale che, accogliendo le rimostranze dei contrari alla lingua di Sua Maestà, aveva implicitamente disposto lo stop a questa tipologia di corsi, non potendo «ridurre la lingua italiana, all’interno dell’università italiana, a una posizione marginale e subordinata, obliterando quella funzione, che le è propria, di vettore della storia e dell’identità della comunità nazionale» pur se con l’intento è quello di internazionalizzare il percorso di studio.
Gongola l’Accademia della Crusca, uno dei principali punti di riferimento nel Paese per le ricerche linguistiche tricolore. Per gli storici accademici e del suo presidente Claudio Marazzini i danni a cui il Paese rischia di andare incontro imponendo un’unica lingua di studio (non italiana) avrebbe ripercussioni non indifferenti per il tessuto sociale della nazione.
Tra le due fazioni si attende la posizione del ministero, e già tutti si interrogano se assumerà più le vesti dell’incendiario o quelle del pompiere. Il ministro uscente Valeria Fedeli, dopo la sentenza, si è detta concorde e pronta ad allinearsi a quanto stabilito dalle toghe di Palazzo Spada. Non per quest’anno però, non essendoci più i tempi tecnici per un intervento risolutore.
Di parere nettamente contrario il Sindaco della città meneghina Giuseppe Sala che, in un suo recente intervento, non ha esitato a definire «una follia» le dichiarazioni del ministro, offrendo indirettamente il proprio supporto alle scelte dell’Ateneo della città.
Intanto, nell’imperversare della polemica, nessuno pare aver tenuto conto delle statistiche sui giovani emigrati, una cifra che si aggira intorno ai 285.000 ogni anno. A tanto ammontano infatti i connazionali che nel corso del 2016 hanno cercato fortuna all’estero. Di essi, due su tre non sono più tornati, ma né i tribunali né il ministero forse lo sanno.