Allo studio del dicastero dell’Economia lo sconto dal 38% al 35% dell’Irpef o la cancellazione di uno scaglione. Tensione tra Di Maio e il Ministro Tria.
Di Alessandro Alongi
Dopo un mese di proclami è giunta l’ora di dare risposte convincenti all’elettorato. Non basta soltanto l’approvazione di un travagliatissimo decreto omnibus, per dipiù ancora incerto sul fronte delle ricadute e delle coperture economiche, ma bisogna fare molto di più, anche per iniziare ad onorare il Contratto di governo. Di ciò sono convinti i due vicepremier Matteo Salvini e Luigi Di Maio, che per questo delicato dossier si affidano mani e piedi al Ministro dell’Economia Giovanni Tria.
A colui che detiene i cordoni della borsa è stato chiesto, nei giorni passati, di provare a tirare fuori un coniglio dal cilindro di via XX Settembre, ben consapevoli tutti delle scarse risorse economiche a disposizione per realizzare i due «must» dell’accordo politico su cui si regge l’alleanza penta-leghista: riforma della legge Fornero e Flat Tax.
«Le riforme saranno efficaci in un percorso realistico di obiettivi intermedi e finali» ha dichiarato il Ministro Tria che, tradotto, probabilmente, vuol dire che le risorse son quelle che sono e, pertanto, si cercherà di realizzare almeno una parte delle promesse. E così, in vista della prossima legge di Bilancio, i tecnici del dicastero dell’economia stanno studiando il modo di rendere sostenibile una prima riduzione delle tasse, intervenendo sulle aliquote centrali, ovvero quelle che più interessano il ceto medio, quasi dieci milioni di italiani.
Un segnale, più che una riforma. Ne è consapevole Luigi Di Maio che, secondo le indiscrezioni riportate su alcuni quotidiani, guarda con sospetto la politica economica del titolare del ministero dell’economia, accusato più o meno velatamente dai penta-leghisti di tendere troppo facilmente l’orecchio ai richiami che giungono da Bruxelles, ostacolando così il «governo del cambiamento».
In estrema sintesi l’approccio che i tecnici di Giovanni Tria stanno seguendo è quello di fare comunque qualcosa, consapevoli che difficilmente riusciranno a reperire risorse economiche pari a circa 50 miliardi di euro per finanziare la flat-tax, ovvero l’introduzione di un sistema fiscale basato soltanto su due aliquote del 15% e del 20% al di sopra o al disotto degli 80 mila euro di reddito.
Tra i progetti sul tappeto il taglio dell’attuale aliquota Irpef del 38% che grava sui redditi tra 28.000 e 55.000 euro, e che coinvolge più di 8 milioni di contribuenti. Nelle ipotesi allo studio una riduzione dell’aliquota di 3 punti percentuali, che passerebbe così al 35%. Il costo per l’erario è stato calcolato introno ai 3 miliardi di euro, ovvero un miliardo per ogni punto percentuale ridotto.
Attorno alla scrivania che fu di Quintino Sella si sta lavorando anche ad una seconda ipotesi, ovvero la riduzione da cinque a quattro fasce Irpef, con l’accorpamento dei due scaglioni centrali (quelli al 38% e 41%, quest’ultimo previsto per i redditi tra 55 e 75 mila euro) e la creazione, così, di un’unica aliquota al 36%. Interessati alla manovra, oltre agli 8 milioni di contribuenti ricadenti nella prima ipotesi, anche più di 800 mila contribuenti il cui reddito è superiore a 55 mila euro annui, benestanti di orientamento prevalentemente leghista.
Accanto a dette ipotesi di lavoro anche altri interventi parrebbero affacciarsi all’orizzonte: è il taglio del cuneo fiscale e l’introduzione di incentivi per i nuovi assunti, misure molto care a Di Maio. Non si esclude che entrambi i temi siano introdotti (o perlomeno affrontati) – coperture permettendo – già in sede di conversione del c.d. «decreto dignità».
In particolare i bene informati vorrebbero l’attenzione di Di Maio focalizzata su un taglio selettivo delle imposte sul lavoro dipendente a partire da settori ritenuti strategici, come imprese digitale e made in Italy. Ma rimane sempre un solo problema: le coperture finanziarie che, al momento, rimangono piuttosto aleatorie.
E se mancano le forze, comunque è sempre lodevole la buona volontà.