Dopo il ciclone Trump i democratici punteranno sull’usato garantito oppure sull’effetto sorpresa come fu per Obama?
di LabParlamento
Anno zero in casa democratica. Dopo la cocente delusione del 2016, con l’imprevista e drammatica vittoria di Donald Trump e il tramonto di ogni ambizione per Hillary Clinton, all’interno del partito si è aperta una vera prateria in vista delle primarie che dovranno incoronare lo (o la) sfidante del presidente tycoon. Crocevia per comprendere ambizioni e perimetri d’azione dei possibili candidati saranno le elezioni di metà mandato del prossimo 6 novembre durante le quali viene rinnovata la composizione della Camera dei rappresentanti e un terzo dei membri del Senato. Solo allora il quadro sarà più chiaro.
Dopo il ciclone Trump, che aveva già annientato, una dopo l’altra, le aspirazioni di mezza classe dirigente repubblicana anche i democratici si trovano ora di fronte ad un rebus vitale: puntare sull’usato garantito oppure tentare l’effetto sorpresa come fu per Obama, che pure si impose contro una sfrafavorita Clinton. Ma in America, dopo quelle primarie del 2007, nulla è più davvero scontato.
I nomi noti sul piatto sono 3: l’eterno Joe Biden, già navigato Vicepresidente di Barack Obama, Bernie Sanders, il senatore del Vermont che grazie ad una mobilitazione sorprendente costrinse la Clinton ad una nomination risicata alle primarie e la senatrice del Massachusetts Elizabeth Warren. Sia Sanders che Warren rappresentano l’anima più di sinistra del Partito democratico che dopo la radicalizzazione e lo spostamento a destra del Gop potrebbe a sua volta puntare su una linea più “social care” mentre Biden, cattolico ed esponente dell’anima più centrista dei democratici, sarebbe invece il profilo ideale per un tentativo di recupero dell’area moderata, da sempre il vero ago della bilancia nelle elezioni presidenziali. Mentre la leadership democratica non prende ancora posizione in favore di nessuno, in attesa di comprendere se e come ci sarà un riscatto alle elezioni di mid-term, Sanders continua ad essere secondo i sondaggi uno dei leader più popolari nel paese, nonostante una certa diffidenza dell’elettorato delle minoranze, uno dei suoi punti deboli per la nomination del 2016.
Nonostante gli scandali del Russiagate e la recente indiscrezione su un presunto caso di insabbiamento, Trump, ancorché debole rispetto ai suoi predecessori è ancora il grande favorito per la rielezione, e non solo per i milioni di dollari già raccolti dal suo comitato di rielezione. Del resto il magnate newyorkese durante la sua corsa contro l’ex segretario di Stato ha stupito tutti per la propria capacità di attrarre anche il consenso di elettori ben lontani e diversi da quelli del profondo sud e del tea party, facendo breccia anche tra le fabbriche del Michigan e tra la borghesia dell’Ohio.
Per i democratici, che per la seconda volta in sedici anni si sono visti sconfiggere – nonostante oltre 2 milioni di voti popolari in più – in Florida, Pennsylvania, Ohio, Wisconsin e Iowa dovranno ora dimostrare di essere all’altezza della contaminazione trumpiana, in un dibattito pubblico interno che per certi versi ricorda molto i mesi che precedettero la sfida tra Walter Mondale e Ronald Reagan, con quest’ultimo che poi incassò uno dei più grandi successi della storia delle presidenziali Usa. E stando alle impressioni di oggi il risultato, a favore dei repubblicani, appare già dato per scontato.