L’ascesa del segretario federale della Lega e la dead line delle elezioni europee aprono a due scenari. Intanto, sopra il 30% Salvini è di fatto il leader mediatico del Governo
di Luca Tentoni
Probabilmente questo è il momento politico più favorevole al leader leghista Salvini. Da un lato, la maggioranza di governo supera il 60% dei consensi (o, meglio, delle intenzioni di voto espresse nei sondaggi); dall’altro, una parte dell’opposizione (Forza Italia e Fratelli d’Italia) si prepara a quella che potremmo definire una “non belligeranza” nei confronti dei provvedimenti dell’Esecutivo (ma solo di quelli di marca leghista).
Nel frattempo, quel che resta dell’opposizione parlamentare ha consensi e seggi di scarso peso (Leu, Più Europa) oppure versa in una profonda crisi d’identità (il Pd, sul quale non si può neppure formulare un pronostico di sopravvivenza senza scissione di qui a un anno). Il ministro dell’Interno non potrebbe desiderare di meglio. Di fatto, mediaticamente è lui il capo del governo, anche se la realtà è più articolata. Partito col 17% dei voti delle politiche contro il 32% del M5S%, si ritrova “socio di maggioranza” (con un vantaggio che nei sondaggi oscilla fra l’1 e il 3%) dell’Esecutivo gialloverde (mentre i Cinquestelle restano sotto il dato del 4 marzo, con una flessione stimabile intorno al milione di voti).
Inoltre, è dominus incontrastato dell’area di centrodestra, che oggi vale circa un 43-44% (30-31% Lega, 13% Fi-FdI-Altri) e che forse si va ricomponendo anche in Parlamento, in una sorta di “secondo cerchio di maggioranza” simile a quello che Renzi inaugurò per le riforme istituzionali al tempo del “patto del Nazareno”. In questo caso, il centrodestra prova a riunirsi per vincere le prossime elezioni comunali e regionali e adotta, nei confronti del governo, una doppia azione: la Lega è in maggioranza (quindi sostiene Conte e trae benefici dalla situazione: i Cinquestelle non attaccano Salvini e la Lega sui 49 milioni, ma danno il via libera per la revisione della “legge Fornero” e per un primo assaggio di quella che impropriamente si definisce “flat tax”; inoltre, le Tv di Berlusconi non saranno toccate), mentre le altre due forze politiche attaccano il M5S su tutto, ma approvano (palesemente o, appunto, con la “non belligeranza”) ciò che nel programma di governo somiglia o coincide con quello della CDL. Senza contare che la strategia di Salvini vale anche per l’Europa: sta con Orbàn (sovranista ma nel PPE) ma si oppone alla Merkel (con la quale, però, Berlusconi resta in contatto).
Il tutto, in vista di uno scenario che – dopo le elezioni europee del prossimo maggio – potrebbe veder nascere un’inedita alleanza fra Popolari e destra nazional-populista (al posto di quella fra PPE e PSE) che condurrebbe il tedesco Weber alla guida della Commissione europea. In pratica, una sorta di “soluzione austriaca” per Strasburgo, nella quale, per sovrammercato, Salvini porterebbe probabilmente al gruppo “eurocritico” una quota di seggi sufficiente per fare della delegazione italiana la più numerosa (il 30% del leader leghista è molto più del 21% attribuito dai sondaggi al partito della Le Pen).
Inoltre, se il M5S in Europa è ancora “in cerca d’autore” (e di affiliazione ad un gruppo, per la prossima legislatura), Salvini ha una casa che potrebbe diventare grande e della quale finirebbe per avere le chiavi. Se si pensa che alle scorse europee la Lega era un partito medio-piccolo, relegato all’opposizione e fuori dai giochi in Italia e in Europa, il risultato ottenuto da Salvini non è di poco conto.
Resta però da domandarsi come il leader leghista si giocherà le carte successive al voto di maggio: rovescerà il tavolo del governo per andare ad elezioni anticipate e arrivare a Palazzo Chigi con i voti del centrodestra, oppure continuerà la politica dei due forni con Cinquestelle da un lato e FI-FdI dall’altro? Ciascuna delle due ipotesi ha aspetti positivi e controindicazioni. Andare all’incasso subito, con elezioni politiche nel 2019, significa per Salvini guidare un governo dove Berlusconi e Meloni avranno – nonostante lo scarso peso elettorale – seggi sufficienti per esercitare una certa pressione (cosa che oggi non possono fare né all’opposizione, né stando nel “cerchio ampio” non governativo ma filoleghista). Restare nel governo giallo-verde, invece, comporta vincoli di carattere finanziario. Per dirla in parole povere: le compatibilità di bilancio non bastano per soddisfare le esigenze dei due programmi dei partiti coalizzati, col rischio di scontentare gli elettori, alla lunga. Scaricando il M5S, Salvini avrebbe molte più risorse per il suo programma (che è anche quello di FI e FdI), quindi potrebbe giocarsi carte migliori per mantenere il consenso. In questa partita c’è un’incognita: il Pd.
Oggi i Cinquestelle non hanno sponde, in caso di rottura con la Lega, per dar vita ad un governo con i Democratici (i renziani non lo voterebbero, provocando verosimilmente una scissione del partito) ma fra uno, due, tre anni quel che è impossibile adesso potrebbe diventare praticabile (al di là dei protagonismi personali, la lotta nel Pd è imperniata in gran parte sull’atteggiamento da tenere nei confronti dei Cinquestelle). Quindi, anche se taluni commentatori reputano legittimamente che a Salvini faccia più comodo non cambiare nulla e portare avanti la legislatura anche dopo le europee, il rischio che si riaprano i giochi a sinistra e che la Lega subisca un effetto di “sgonfiamento” come quello capitato al Pd fra il 2014 e il 2018 sono argomenti validi per pensare che – forse – oggi il “piano A” del Carroccio sia andare ad elezioni anticipate (a meno che, con la vittoria di un candidato filorenziano nel Pd, permangano le condizioni che oggi bloccano i Cinquestelle e li “costringono” a governare con Salvini: in tal caso, il governo potrebbe proseguire il suo percorso ancora a lungo).