La morte di George H. Bush consegna alla storia la vittoria americana della guerra fredda e di quella del Golfo. La storia ed il ricordo dell’unica dinastia che seppe eguagliare e superare i Kennedy.
Pochi mesi dopo la scomparsa di Barbara, la sua dolce metà, icona di stile (e gaffe) in quell’America cotonata ed edonista degli anni ’80, se ne va anche George H., capo dell’unica dinastia politica che ha saputo eguagliare e superare la famiglia Kennedy e fondatore di quel Partito repubblicano “gentile” morto e sepolto ben prima della sua scomparsa.
Quando nel lontano 1979 Ronald Reagan lo scelse come suo vicepresidente nessuno avrebbe potuto prevedere che per ben venti dei successivi quarant’anni di storia americana i Bush sarebbero stati gli inquilini più longevi della Casa Bianca. E non è un caso, forse, che gli eventi più significativi della recente storia dell’occidente, il crollo del muro di Berlino, la dissoluzione dell’Unione Sovietica, la prima (e la seconda) guerra del Golfo, fino a quel tragico 11 settembre del 2001, siano coincisi con le loro amministrazioni. Con l’addio a George Bush primo, l’America, anche quella che lo raffigurava sovente nei Simpson, ha oggi, plasticamente, voltato pagina. Tutto è cambiato.
Ad essere cambiato è il Partito repubblicano, oggi controllato da una leadership anni luce lontana dallo stile e dal bacino storico dei Bush i quali seppero strappare, dopo secoli di dominazione democratica, il Texas, rendendo il profondo sud, una volta tanto, il baricentro privilegiato di quell’allora new generation repubblicana che da Houston avrebbe poi scalato il palcoscenico mondiale. Come profondamente mutati sono gli stessi equilibri politici che hanno plasmato il percorso elettorale degli Stati Uniti: mai si era visto un ex Presidente repubblicano annunciare pubblicamente il proprio sostegno al candidato democratico (moglie, tra l’altro, dell’uomo che lo sconfisse).
Proprio come a Churchill dopo aver vinto la seconda guerra mondiale non era bastato a George H. Bush vincere la guerra fredda e assistere al trionfo del crollo dell'”impero del male”. L’America, come poche volte è successo durante la sua storia ultracentenaria, decise di voltare le spalle al Presidente in carica, eleggendo il semisconosciuto Bill Clinton in una elezione drammatica che sancì la prima battuta di arresto della famiglia più potente d’America.
Ma i Bush, proprio come Nixon dopo la sconfitta sul filo di lana contro lo sbarbato e inesperto JFK, non si dettero per vinti. E fatalmente la loro storia finì per incrociarsi di nuovo con quel Saddam Hussein che George H. – per molti inspiegabilmente – aveva deciso di mantenere al potere a Baghdad dopo la ritirata dal Kuwait. La ragione di quella scelta fu compresa appieno solo una decina d’anni dopo. E a farne le spese furono sempre loro, i Bush. Invadere l’Iraq, secondo Bush senior, avrebbe significato ingaggiare un conflitto che si sarebbe trasformato in un nuovo Vietnam. Previsione che puntualmente si avverò quando Bush jr decise, contrariamente all’opinione del padre, di rovesciare il regime di Saddam e di mettere mano, con esiti disastrosi, al fragile equilibrio politico ed etnico iracheno, ancora oggi ben lungi dall’essere ripristinato.
A poca distanza dalla scomparsa di un altro repubblicano eretico, John McCain, l’America seppellisce non solo il suo 41esimo Presidente ma l’ultimo baluardo di una generazione rinnegata persino da chi, oggi, controlla quel Partito repubblicano che senza le intuizioni di Bush padre sarebbe morto dopo le dimissioni di Richard Nixon.