Cosa ne sarà di Brexit, e dell’accordo siglato da May è infatti oggi il vero dilemma da sciogliere. Il tutto mentre la strada di un secondo referendum, fino a pochi giorni fa esclusa da tutti, comincia ad essere sia per i conservatori che per i laburisti l’unica via di uscita
La drammatica giornata a Westminster ha dato il suo verdetto: Theresa May è salva.
Era un anno fa quando i primi segnali di una fronda parlamentare contro il Primo Ministro Theresa May avevano cominciato a minacciare il suo gabinetto e, con esso, tutto il percorso di Brexit. Dopo una strenua resistenza, una decina di dimissioni dal suo governo e una serie di cocenti sconfitte personali, stavolta, la fronda conservatrice aveva deciso di uscire allo scoperto. Ma non ce l’ha fatta.
I 200 voti conquistati dalla Premier non ingannino: non è un buon risultato. John Major, che pure non era certo Winston Churchill o Margaret Thatcher in quanto a popolarità, nel 1993 se l’era cavata meglio. E oltre un terzo dei parlamentari, 117 per la precisione, che hanno votato per la cacciata della May è un bottino che raccoglie consensi ben al di là della ormai famigerata ottantina di ribelli che, sin dal 2016, dà del filo da torcere a May.
In altri momenti – e la storia della più antica democrazia parlamentare del mondo ne è piena – Theresa May sarebbe già stata annoverata tra i former prime ministers, magari in giro per il mondo per qualche conferenza strapagata come già accaduto per i suoi predecessori Major, Blair e Cameron. Ma il macigno di Brexit e il suo necessario compimento ha rinviato, mille volte, il redde rationem. Se non fosse stato per Brexit per May le cose sarebbero quindi andate in modo diverso. L’ultima caduta di un Primo Ministro per un voto di censura rimane pertanto quella targata 1979, quando su impulso dell’allora capo dell’opposizione Margaret Thatcher il Governo di James Callaghan dovette dimettersi per un solo voto. Il laburisti non avrebbero messo più piede a Downing Street per i successivi 18 anni. Non era un voto interno, ma parlamentare. Come parlamentare sarà il voto sull’accordo relativo al negoziato e il risultato di stanotte non esclude che l’accordo su Brexit venga respinto comunque. Con conseguenze ancora da decifrare.
La salvezza della May non era affatto scontata, e lo si era compreso chiaramente già lunedì, quando con una decisione clamorosa, di fronte ad una umiliazione senza precedenti, Lady May aveva rinviato il decisivo voto sull’accordo con l’Unione Europea, una madre matrigna dalla quale separarsi, e i fatti stanno dimostrando, è operazione tutt’altro che agevole. E a fare la differenza è stato un gruppo di “responsabili” che, pur di non mandare al macero due anni di negoziati hanno preferito turarsi il naso e appoggiare l’anatra zoppa.
Il de profundis era iniziato ieri. Proprio mentre la May era all’estero, negoziando con L’Aja e Berlino la possibilità di una modifica del contestato accordo, a Westminster i ribelli conservatori iniziavano a contarsi per raggiungere quella quota 48, il numero sufficiente per azionare la conta interna necessaria per farla fuori da Downing Street. E le menti di tutti i cultori della politica britannica non hanno potuto non tornare a quel fatidico novembre del 1990, quando mentre Margaret Thatcher era impegnata al summit di Parigi, il Partito conservatore preparava il regicidio della lady di ferro cavalcando la candidatura di Micheal Heseltine. Per entrambi fu un fallimento: la Thatcher, pur prevalendo di gran lunga sul suo competitor, non ottenne per quattro voti il quorum e, dopo una notte folle di febbrili trattative, decise di gettare la spugna, evitando così di misurarsi ancora e di chiudere undici anni di successi con una umiliazione storica. A Downing Street si sarebbe quindi insediato il suo delfino Major e la Thatcher, da quel tradimento, non si riprese mai più.
La storia, si sa, torna spesso sotto forma di farsa. Come stavolta. Un governo nato dopo lo sconsiderato azzardo di David Cameron al solo scopo di portare a termine una traversata del deserto si è infine salvato ad un passo dal baratro. Non per questo l’incertezza su come e quando verrà approvato l’accordo con l’Ue
Cosa ne sarà di Brexit, e dell’accordo che a May è infatti oggi il vero dilemma da sciogliere. Il tutto mentre la strada di un secondo referendum, fino a pochi giorni fa esclusa da tutti, comincia ad essere sia per i conservatori che per i laburisti l’unica via di uscita da un caos che sembra oggi senza soluzione se è vero che, nonostante sia passata indenne dalle forche caudine riva al Tamigi, la May ha, presumibilmente, ancora una vasta maggioranza parlamentare pronta a bocciare la sua risoluzione. Staremo a vedere.