Non solo le europee: nel 2019 ci aspetta anche un decisivo appuntamento con le elezioni regionali, negli ultimi anni “spacchettate” rispetto al turno unico del passato. Nonostante il quadro nazionale, a livello locale centrodestra e centrosinistra in formato classico fanno ancora la differenza
di Luca Tentoni
Fino a qualche tempo fa, le elezioni regionali (quelle delle regioni a statuto ordinario, s’intende) erano concentrate negli anni che finivano col cinque (1975, 1985, 1995…) o con lo zero (1970, 1980, 1990…). Ora sono disperse e, aggiungendosi ai rinnovi dei consigli delle regioni a statuto speciale, finiscono per costituire importanti test elettorali annuali.
Nel 2019 si voterà in Abruzzo (10 febbraio), Sardegna (24 febbraio), Basilicata (26 maggio), Calabria ed Emilia-Romagna: tutte regioni guidate da “governatori” del centrosinistra (e nelle quali – come è facile prevedere – il Pd non riuscirà a “fare il pieno” come la scorsa volta). Fra la fine del 2017 e il 2018, invece, si è votato in Sicilia, Molise, Lombardia, Lazio, Val d’Aosta, Friuli-Venezia Giulia e nelle province di Trento e Bolzano: in tutto, sette regioni (tre ordinarie e quattro speciali) contro le sei del 2019 (cinque ordinarie, una speciale). Il corpo elettorale della tornata 2018 è stato di poco inferiore ai venti milioni di aventi diritto. Quello che ci attende è un test compiuto su un campione di popolazione più ristretto, ma comunque significativo. Lo scopo di questa riflessione è cercare di vedere se, nel confronto fra il voto regionale del 2018 (più la Sicilia 2017) e quello politico del 4 marzo dello stesso anno ci sono differenze rilevanti e se ci sono comportamenti strutturali dell’elettorato, in relazione al tipo di consultazione.
Una prima tendenza abbastanza chiara riguarda la differenza (volatilità) tra il voto politico e quello regionale, che nel 2018 è stata pari al 14,7% generale e al 12,7%, considerando solo gli scambi di voti fra i poli; segno che gran parte (l’86%) dell’elettorato che si muove fra l’elezione più importante (le politiche) e quella di peso secondario (le regionali) va, nelle scelte locali, ben al di là delle opzioni e delle “famiglie politiche” preferite per il Parlamento nazionale.
Nelle sette regioni andate al (doppio) voto nel 2018 ci sono differenze di affluenza fra le consultazioni (63,5% alle regionali, 72,4% alle politiche), ma non di schede bianche e nulle (2% contro 2,4%). Per quanto riguarda il voto ai partiti, si sono registrate alcune “coincidenze” che forse meritano una riflessione. Il dato del M5S alle regionali è sempre inferiore a quello delle politiche (19,4% contro 30%), a tutto vantaggio degli altri poli (Centrodestra: 45,4% contro 39,8%; Centrosinistra: 26,7% contro 22%; Autonomisti: 2,3% contro 1,2%) ma non della sinistra (3,6% contro 4,4%). I risultati di lista di Forza Italia (regionali 13,9%; politiche 14,5%), Lega (20,1%; 19,2%), Fratelli d’Italia (4,1%; 4,9%), Pd (17,8%; 18,2%) non si discostano di più dell’1% fra un’elezione e l’altra. È però vero che il surplus di voti e percentuali ottenuto alle regionali da centrodestra e centrosinistra si riversa sulle civiche e sulle liste del presidente, che sono forse più adatte per andare oltre i poli e catturare voti in uscita dal M5S; c’è poi da dire che nella competizione regionale, laddove il candidato dei Cinquestelle è poco noto oppure non è reputato competitivo, una parte dell’elettorato pentastellato si rifugia nell’astensione.
Il fatto che il M5S passi da 3,77 milioni di voti delle politiche (nelle sette regioni prese in esame) a 2,11 milioni alle regionali è indicativo di una debolezza strutturale, in quest’ultimo tipo di competizioni, già fatta registrare nell’ultimo quinquennio.
Per contro, i risultati di centrodestra (4,93 milioni contro 5,01) e centrosinistra (2,9 milioni contro 2,77) danno l’impressione che le famiglie politiche tradizionali abbiano ancora solide basi locali, o comunque un personale politico più in grado di raccogliere consensi in un’elezione competitiva come quella regionale, dove anche il voto di preferenza conta.
I vecchi poli che hanno dominato il primo ventennio della Seconda Repubblica sono capaci di mobilitare o rimobilitare per le regionali il loro elettorato “politico”, cosa che – con tutta evidenza – il M5s non riesce a fare con efficacia.
Il test del 2019, dunque, servirà a comprendere se il centrodestra sarà più forte che in ambito nazionale anche in regioni come l’Abruzzo, la Sardegna, la Basilicata, la Calabria dove alle politiche ha prevalso (anche largamente, in certe zone) il M5s e se (e quanto) il centrosinistra e il Pd (che – fatto singolare – al momento del voto in Abruzzo e Sardegna non avrà ancora il nuovo segretario) siano in grado di arginare a livello locale il calo di consensi fatto registrare il 4 marzo 2018.