Dopo tre anni di indagini l’Autorità di Berlino mette un freno all’uso delle informazioni raccolte dal social e poi rivendute agli inserzionisti grazie alla combinazione dei dati raccolti su app e siti di terze parti. Si complica il percorso di integrazione di Facebook con Messenger, Instagram e WhatsApp previsto per il 2020
Esiste un giudice a Berlino? La risposta è affermativa, e non risparmia di riprendere il comportamento della piattaforma più popolare del web, Facebook, accusata dall’Antitrust teutonica di raccogliere informazioni personali dalla navigazione e dalle applicazioni usate dai cittadini tedeschi senza il loro consenso.
La pratica contestata dal Bundeskartellamt all’azienda di Menlo Park si sostanzia nell’obbligo, imposto dal social network ad ogni utente attivo sulla celebre piattaforma, di accettare per intero le condizioni di servizio che prevedono, tra l’altro, il rilascio di un’autorizzazione generale a raccogliere informazioni sull’uso di Internet e delle principali applicazioni, come Instagram e WhatsApp.
Una montagna di dati preziosissimi che, messi a sistema, sono in grado di ricostruire un profilo accuratissimo dell’utente, così da indirizzare pubblicità personalizzata agli utilizzatori della piattaforma americana.
Da qui l’ordine perentorio dell’autorità tedesca a Mark Zuckerberg di modificare le condizioni contrattuali, sancendo lo stop alla raccolta indiscriminata dei dati degli utenti (e la conseguente impossibilità di utilizzare il social in caso di mancata accettazione di tali regole), informando gli utilizzatori sulla possibilità di esprimere o negare il consenso alla raccolta delle loro pratiche informatiche. La posta in gioco è alta, un patrimonio di 23 milioni di informazioni personali: a tanto ammontano, infatti, gli account attivi, ogni giorno, in tutti i Länder tedeschi.
La risposta di Facebook non si è fatta attendere, restituendo al mittente le accuse con un apposito post e preannunciando riscorso contro la decisione dell’Autorità: «La popolarità non è predominio» hanno detto i legali californiani, sostenendo l’inesistenza di una posizione dominante nonché l’incompetenza assoluta dell’Antitrust a giudicare il caso di specie. Semmai, secondo gli avvocati americani, la competenza spetterebbe all’Autorità per la tutela della privacy nell’ambito delle regole dettate dal nuovo Regolamento sulla materia, meglio noto come GDPR. Nel dubbio, comunque, tra un like e un newsfeed, Facebook ha assicurato la disponibilità a migliorare i controlli e a salvaguardare le informazioni delle persone.
Disco rosso, dunque, al trattamento sommario dei dati. Soddisfatto l’arbitro della concorrenza Andreas Mundt: «In futuro, a Facebook non sarà più permesso forzare la condivisione illimitata dei dati da una piattaforma all’altra senza il consenso volontario degli utenti e chi lo negherà non potrà essere escluso dai servizi».
La creatura di Mark Zukerberg non è nuova a questi temi. Nel 2014, cogliendo le potenzialità della quantità di dati disponibili su WhatsApp, Facebook acquistò la piattaforma, dichiarando di fronte la Commissione europea (preoccupata per le notevoli dimensioni assunte nel campo del trattamento dei dati dalla società americana) di non voler (e poter) mettere in collegamento i profili WhatsApp con gli account di Facebook, tranne poi realmente metterli in comunicazione due anni dopo e sfruttare tutte le potenzialità della sinergia digitale. Multata per 110 milioni di euro, la normativa antitrust europea ha solo solleticato il gigante Californiano, che non aveva battuto ciglio quando, tre anni prima, pagò 19 miliardi per l’acquisto dell’app di messaggistica.
Strada in salita, dunque, per la prospettata integrazione tra Facebook Messenger, Instagram e WhatsApp, prevista a partire dal 2020, un autentico monstre informativo che richiederà, specie dopo questo arresto, un nuovo approccio alle regole antitrust a tutela degli utenti.