L’effetto Euro ha irrobustito il Pil tedesco e alleggerito quello italiano (e non solo) ma ha ridotto la fluttuazione dei prezzi e garantito anni e anni di contenimento dell’inflazione, senza dimenticare l’eliminazione dei rischi dovuti ai costi di cambio
di Stefano Gianuario
Vent’anni e sentirli tutti. Si parla dell’Euro, quella moneta unica negli intenti ma capace di creare divisioni di ogni ordine e grado nella riuscita. Anche se nelle tasche – pochi – e nei discorsi – tanti – degli italiani e degli europei gli euro vedono il proprio debutto nel 2002, l’esordio sui mercati finanziari risale invece al 1999.
Vent’anni rendono una storia tutto sommato breve e lo è ancor più, nel caso dell’Euro, se paragonata agli oltre due secoli del franco francese, ai quasi centocinquant’anni del marco tedesco – presente in varie forme sin dall’unificazione germanica – e alla tanto compianta lira, anch’essa di longevità secolare.
Le vecchie monete nazionali sono tornate all’onore della cronaca in questi giorni – casomai ce ne fosse mai stato bisogno – per uno studio realizzato dal Centre for European Policy di Friburgo proprio per l’anniversario della moneta unica, chiamandolo, forse non a caso ma probabilmente con sagace ironia, “20 di Euro: vincitori e vinti”.
Il think tank tedesco ha stimato gli impatti del conio del Vecchio Continente sulle economie dei paesi membri nel corso dell’ultimo ventennio, comparando i risultati con un’alternativa parallela senza Euro.
Risultato? L’effetto Euro ha irrobustito il Pil tedesco e alleggerito quello italiano (e non solo).
La Germania avrebbe guadagnato, dal 1999 al 2017, un incremento del suo Prodotto interno lordo di circa 1.883 miliardi di euro, con un ripartizione per abitante di oltre 23mila euro. Per contro l’Italia avrebbe ottenuto l’effetto opposto, con un impoverimento del Pil nazionale di 4.325 miliardi di euro e di quello pro capite di oltre 73mila euro. Numeri da far andare in visibilio gli euroscettici e chi vede il Vecchio Continente sempre troppo germanocentrico.
Ma anche senza dare materia al dibattito politico, lo studio del Cep parrebbe confortare le chiacchiere da bar dei primi anni duemila dove era tutto un “dovevamo tenerci la lira, con l’Euro tutto costa il doppio”.
Ma non di chiacchiere vive l’economia reale e, se è vero che in un universo distopico con ancora la lira in circolazione la percezione del benessere per gli italiani sarebbe indubbiamente più alta, lo è meno se si considera il costo da pagare – anche fuor di metafora – per questo benessere.
Con il vecchio conio italico era infatti prassi assodata svalutare quasi regolarmente la valuta per non mettere in campo riforme strutturali cosa che, con il mercato e la moneta unica non è stato più possibile fare. E in un’economia sempre più globale, con l’accelerata poderosa degli ultimi vent’anni e colossi come la Cina a battere il tempo in crescendo, pare ancor più evidente che un indebolimento ciclico della valuta nazionale non avrebbe portato alcun beneficio e, anzi, avrebbe reso l’Italia in un contesto europeo a moneta unica, ancora più povera.
Inoltre, quando si bistratta la valuta unica, non si considera che questa ha ridotto la fluttuazione dei prezzi e garantito anni e anni di contenimento dell’inflazione, senza dimenticare l’eliminazione dei rischi dovuti ai costi di cambio. Giusto per portare un esempio in linea con l’antico match italo tedesco: l’interscambio commerciale tra Italia e Germania, vale circa 120 miliardi di euro e rappresenta il 20% dell’export italiano. Nell’universo alternativo con un’Italia più ricca di lire e senza il criticato euro difficilmente si arriverebbe a questi numeri.