Considerando che i leader si “consumano” e si gettano via sempre più rapidamente come i prodotti tecnologici l’eccessiva identificazione fra capo carismatico e partito rischia di mandare in rovina quest’ultimo, quando il primo cade in disgrazia
di Luca Tentoni
Le più recenti vicende politiche offrono spunti di riflessione su due discutibili opinioni che – per un certo periodo di tempo – hanno riscosso ampi consensi: l’idea che la democrazia possa fare a meno dei partiti; la negazione della mediazione, sia fra (e nei) soggetti politici, sia con i corpi sociali.
Si è pensato, durante l’intera Seconda Repubblica ma soprattutto negli ultimi sei anni, che fosse sufficiente avere un potere “monocratico” (il leader, la Rete) per governare la complessità tipica delle democrazie contemporanee. Le quali, proprio perché complesse, hanno bisogno di più saperi, di un maggiore livello culturale e d’informazione dell’opinione pubblica, di un rapporto dialettico ma rispettoso delle differenze fra partiti, società e Stato.
Il “direttismo”, invece, ha tagliato tutti i rami dell’albero: niente partiti, meglio i movimenti (“partito” è una parola sconveniente, ormai); niente élites di competenti (meglio il televoto o il voto delle piattaforme informatiche); niente organizzazione sul territorio (roba vecchia, meglio una app sul telefonino); niente compromessi (il programma è come il Vangelo: chi non lo osserva o lo discute è accusato di apostasia e rapidamente esiliato dai suoi compagni); niente comunicazioni e protocolli ufficiali (meglio un comizio su Facebook, dove non c’è neanche un giornalista che potrebbe rivolgere domande sgradite); niente limiti istituzionali (oggi si può chiedere la messa in stato d’accusa del Capo dello Stato per contrasti sulla nomina di un ministro); poca etichetta nei rapporti con i paesi vicini (come nel caso della crisi italo-francese sui “gilet gialli” e in quello della trattativa con l’Ue sulla nostra legge di bilancio – iniziata con un duro scontro e finita con un accordo che si sarebbe potuto raggiungere due mesi prima).
Poi la realtà presenta il conto: i competenti non possono essere “cattivi” (quando non votano un cantante) o “buoni” (se il dossier su un’importante opera pubblica dà ragione ad una parte politica; in questo caso, c’è anche il controdossier: buono o cattivo?) a seconda di come si esprimono (lo stesso vale per i giudici); la politica si fa sui social network, però poi, quando i pastori sardi sversano il latte sulle strade, i leader corrono a riscoprire il territorio.
E ci sono i sondaggi più attendibili, quelli fatti dagli elettori che vanno alle urne per rinnovare i consigli regionali: quando si vince, si rivaluta un po’ il valore delle alleanze (in Abruzzo Salvini non avrebbe potuto farcela senza FI e FdI; parimenti, prima i pentastellati si lamentano per le “listine” abbinate ai partiti maggiori, poi aprono alle “civiche” per provare ad essere competitivi; infine, il Pd scopre che la “vocazione maggioritaria” è un lusso per un partito del 18% e comprende che se l’Unione non si può rifare, costruire un campo ampio almeno a livello locale è indispensabile).
Così si “sdogana” anche l’arte della mediazione: ci sono compromessi buoni e cattivi, non solo questi ultimi. E si valuta che, per tenere in piedi il governo, è opportuno convincere la “base” che mandare sotto processo il ministro dell’Interno del partito alleato sarebbe un disastro. Intanto, anche i leader incontrastati comprendono di non poter essere sempre tali.
La questione dell’autonomia chiesta da Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna è per Salvini un po’ come la Tav per il M5S: una questione troppo spinosa che mostra la differenza ideologica fra due soggetti legati da un “contratto” ma da scarse consonanze politiche (con elettorati che, per esempio sul reddito di cittadinanza, hanno opinioni ben diverse se non, almeno al Nord, contrapposte).
I rinvii sui temi più scottanti e le scelte come quella sul caso Salvini-Diciotti dimostrano due cose: i compromessi, in politica (le mediazioni) servono, non solo se si vuole restare al governo, ma anche se si comprende che ci sono ostacoli che solo la politica (non i programmi dogmatici) possono far superare o aggirare; i partiti servono (lo sa bene la Lega sul territorio, così come ora lo ha ben compreso Di Maio, il quale vuole riorganizzare il M5S facendolo somigliare un po’ di più ad un “partito leggero” che ad un movimento) così come sono indispensabili i corpi sociali ed economici (con i quali sarebbe bene dialogare: a qualcuno che non volle farlo, in tempi non molto lontani, il destino politico non riservò buone sorprese).
Non è un tabù passare dal movimento al partito, soprattutto quando si sta al governo. Fuori dal Palazzo si può manifestare, promettere un mondo migliore; dentro, bisogna realizzarlo, o almeno fare ciò che si può con le competenze e la duttilità (nei confronti della realtà e del contesto storico, sociale, economico) senza le quali nessun governo può davvero fare l’interesse della collettività nazionale.
Infine, si sta lentamente scoprendo che oltre le diarchie esiste un mondo col quale relazionarsi: le istituzioni nazionali e internazionali, le autorità indipendenti, la magistratura, lo stesso popolo (nelle realtà sociali, economiche, culturali nelle quali si articola e si associa) che non può essere ricondotto ad unità nemmeno usando la seduzione della “disintermediazione” (che, in certi casi, può rivelarsi più “verticale” della vecchia comunicazione e della “politica 1.0”).
Qualcosa si muove, insomma. Non solo nelle urne, dove spostamenti di voto dell’ordine del 20% dell’elettorato fra una consultazione e l’altra (anche a distanza di pochi mesi) sono ormai abituali, ma nel Paese.
Sarebbe utile, per i partiti di governo e di opposizione, acquisirne sempre maggiore contezza. Considerando, inoltre, che i leader si “consumano” e si gettano via sempre più rapidamente come i prodotti tecnologici (ce ne sono alcuni che un tempo si sarebbero detti ancor “nuovi”, ma che sono irrimediabilmente obsoleti, nonostante tentativi di ritorno: ma non siamo più ai tempi del “rieccolo” Fanfani, o dell’eterno Andreotti) e che – se non vi si pone attenzione – l’eccessiva identificazione fra capo carismatico e partito rischia di mandare in rovina quest’ultimo, quando il primo cade in disgrazia.