Con il via libera al Def 2019 ha fatto ritorno il grande convitato di pietra dell’economia italiana: il debito pubblico. A ripagarlo dovranno essere proprio i nati nel decennio in cui finì fuori controllo
“Un bagno di realismo”, “i nodi son venuti al pettine”, “le chiacchiere stanno a zero”. La pubblicazione del tanto atteso Documento di Economia e Finanza (Def) ha permesso a esponenti politici di ogni ordine e grado di snocciolare tutta una serie di frasi fatte, modi di dire e anche qualche consiglio della nonna.
Come spesso accade – per non dire come sempre – le affermazioni di maggior senso e lucidità sono arrivate però dal presidente della Bce Mario Draghi, che non si è scomposto neanche di fronte alla crescita ferma allo 0,2% del Pil fissata nero su bianco nel Def, dichiarandosi “non sorpreso”, ma sottolineando quanto l’Italia sappia (e debba) stimolare la crescita e invitando a prestare attenzione allo spread e a non causare un aumento dei tassi.
E a conti fatti, al di là dei dettagli e dei battibecchi politici, il contenuto del Def era già chiaro da qualche settimana o, per dirla in maniera più prosaica, “il re era già nudo”, solo che nessuno voleva essere il primo ad ammetterlo.
Ma occorre tornare al monito del capo della Bce che è molto più sottile di quanto si possa, di primo acchito, pensare. Con l’allargamento della forbice tra crescita nominale e tassi di interesse si andrà incontro a un risultato tanto semplice quanto amaro: un aumento automatico del rapporto debito/Pil. Costi che si aggiungono ad altri costi, che generano interessi: quelli del debito hanno raggiunto e superato quota 65 miliardi di euro.
E così si torna sempre a lui, al grande convitato di pietra: il debito pubblico. Nell’ultimo ventennio, in particolar modo, gli italiani si sono così abituati – per non dire assuefatti – a vivere sotto la minaccia del debito pubblico dal non rendersi neanche conto di quanto questo condizioni le scelte e i comportamenti.
Eppure non è sempre andata così.
Il debito nel secondo dopoguerra, nonostante un Paese da ricostruire e la croce e delizia del Piano Marshall, era comunque inferiore di oltre il 20% rispetto ad oggi. È rimasto in qualche modo sotto controllo passando, indenne o quasi, attraverso il boom economico degli anni ’60 e la crisi petrolifera dei ’70, per giungere alle porte degli anni ’80 ancora a un livello di guardia pari a circa il 50% del Prodotto Interno Lordo.
Ma galeotto fu proprio il decennio dell’edonismo sfrenato, con un balzo che ha visto raddoppiare il debito tra il Governo Forlani (1980/81) e l’ultimo Governo Andreotti (1991/92). Tante le cause e di difficile analisi anche per palati fini dell’economia: probabilmente incise l’alta inflazione che spingeva sull’acceleratore della spesa pubblica o ancora il divorzio più caro d’Italia, quello tra il Ministero del Tesoro e Bankitalia che sancì, di fatto, la fine dell’obbligo per quest’ultima di acquistare i titoli di Stato.
Ma si sa, alla storia servono sempre vinti e vincitori per essere scritta. Quel che è certo è che il debito si impennò proprio in quegli anni e, quasi per una macabra ironia, è di questi giorni invece un’analisi dell’Ufficio Studi del Sole 24 Ore che ha incrociato i dati della Banca d’Italia e dell’Istat dal 1946 sino ad oggi. L’obiettivo non è stato tanto quello di capire quanto il debito pubblico pesa sulle teste dei cittadini, bensì come.
Il debito ammonta a circa 38mila euro pro capite, ma secondo lo studio il debito si assottiglia per la generazione dei Babyboomers, inizia ad aumentare per via degli interessi per la Generazione X e sale a dismisura, sempre per gli interessi di cui sopra, per i Millennials, o Generazione Y (per la Generazione Z, i ragazzi nati dopo il 2000 i livello sarà ancora più drammaticamente alto ma, per ora, non è il caso di farglielo sapere).
In estrema sintesi le decisioni prese negli anni Ottanta ricadono su chi è nato in quegli stessi anni, una generazione che dal 2020 sarà il 50% della forza lavoro e a cui toccherà, chissà come, ripagare il debito.