L’Iva è la seconda imposta per il gettito fiscale con un valore di oltre 130 miliardi di euro, seconda solo all’Irpef
“Cantami o Diva dell’IVA funesta”. Non ne vorrà il poeta per il prestito, forse anche troppo prosaico, ma che serve indubbiamente allo scopo. Sì perché, al di là del basso gioco di parole, il comune denominatore con il proemio omerico è proprio l’immortalità: così come nelle scuole di ogni ordine e grado si sono sempre studiati i due massimi poemi epici della letteratura greca, ad ogni governo toccherà, prima o poi, misurarsi con una delle imposte più antiche e longeve dell’Italia repubblicana.
Continua – e continuerà a lungo – a tenere banco il dibattito sull’eventuale aumento delle aliquote IVA, neanche troppo un’eventualità a dire il vero, in quanto anche nel Def appena approvato – così come nella Legge di Bilancio – l’aumento è messo nero su bianco: è legge, approvata dal Parlamento, e scatterà dal prossimo primo gennaio.
La possibilità si sposta quindi sulle “misure alternative”, ovvero su altre coperture finanziarie per non far scattare la clausole di salvaguardia che sono, senza girarci troppo attorno, delle cambiali, dei pagherò: ineluttabili e ineludibili.
Toccherà al governo trovare il modo – i precedenti ci sono – anche se, mai come prima, la posta sul tavolo da gioco 23,2 miliardi di euro per il 2020 e oltre 28 miliardi di euro per il 2021 è davvero alta.
La storia delle clausole, seppur recente, è già tanto tortuosa quanto affascinante. Va detto che finanziarle in deficit, come la maggior parte delle clausole precedenti, non solo non è possibile se non incappando in una procedura di infrazione inferta da Bruxelles, ma è anche una vanificazione delle ragioni per cui sono state introdotte.
Correva l’anno 2011 e l’allora titolare del dicastero dell’Economia, Giulio Tremonti, trovò questo escamotage (che profuma di déjà-vu) delle clausole per convincere l’Europa ad essere un po’ più di manica larga. Un’idea che si sposava sia con lo scenario dell’epoca – esportazioni e Made in Italy in grande sofferenza – sia con la politica economica pensata da Tremonti che voleva spostare la tassazione dal lavoro al consumo e dalle persone agli acquisti, proprio per dare nuovo slancio all’export. Insomma, l’uomo dei numeri del Cavaliere aveva le idee chiare, condivisibili o meno, ma chiare.
Il tutto ha iniziato ad essere più nebuloso con i governi successivi. Mario Monti, chiamato con il suo pool di tecnici a risolvere – anche – le eredità del governo Berlusconi, disinnescò parzialmente le prime clausole, ma poi la patata bollente passò al governo Letta, che si trovò tra le mani il primo aumento dell’Iva ordinaria senza poter far molto. Il governo Renzi riuscì invece nell’impresa della “sterilizzazione” ma, come spesso accade al tavolo da gioco, ci prese gusto e rilanciò. E via così, con un continuo rimandare anno dopo anno, sterilizzando una parte e rinviando l’altra, sino ai fatti recenti e al dibattito all’interno del governo gialloverde, che però ha aggiunto un ingrediente sfizioso: l’aumento delle accise carburante.
Niente di nuovo, si usano da prima di sempre per fronteggiare emergenze di ogni tipo. Il particolare gustoso però è che tutte quelle introdotte, una volta terminate le motivazioni, non sono mai state abolite e quindi si pagano ancora.
Si paga per i terremoti dell’Emilia e dell’Aquila – ci mancherebbe altro, verrebbe da aggiungere – ma si paga anche per le missioni Onu degli anni ’90 o ancora, andando indietro per l’alluvione di Firenze del 1966 e addirittura per la guerra d’Etiopia del 1935.
Le accise servono allo Stato, così come l’Iva che è la seconda imposta per il gettito fiscale con un valore di oltre 130 miliardi di euro, seconda solo all’Irpef. Le tasse servono ed è sempre impopolare chiederle, si sa.
Ma come anticipato gli attuali inquilini di Palazzo Chigi non devono preoccuparsi troppo, sono in ottima compagnia, prima o poi troveranno il modo di ammettere che così fanno – o devono fare – tutti.