Da un’analisi del Centro Studi Itinerari Previdenziali emerge che il 58% dell’Irpef (la prima imposta per gettito fiscale) pesa su poco più di 5 milioni di contribuenti, che dichiarano dai 35 mila euro in su. Ma per la salute dell’economia il ceto medio dovrebbe essere lasciato libero di consumare
Non occorre essere esperti cinefili per ricordare lo sguardo spiritato di Gian Maria Volonté reso immortale dalla sapiente macchina da presa di Elio Petri. Erano i primi anni ’70 e il regista romano con Volonté come protagonista narrava dell’alienazione della fabbrica nel drammatico e toccante “La classe operaia va in paradiso”.
Altri tempi, quasi un’altra epoca verrebbe da dire, considerate le fabbriche di oggi lontane anni luce da quelle di ieri e dalle logiche del cottimo, alle macchine industriali pronte a mutilare l’operaio disattento capaci ora semmai di insidiare i posti dei lavoratori con la minaccia della robotica.
Il titolo della pellicola racchiudeva in sé un messaggio potente che parlava di impossibilità di riscatto sociale, del difficile tenore di vita dei lavoratori delle fabbriche e più in generale dell’immobilismo delle classi sociali, che non sarebbe stato altisonante definire “caste”.
Quasi cinquant’anni dopo non si respira più quell’aria lì, così come non sono più nette le divisioni della società ma proprio il fatto che siano più sfumate non le rende in egual misura giuste.
Negli scorsi giorni ha fatto capolino sui giornali una puntuale ricerca a cura del Centro Studi Itinerari Previdenziali che, incrociando i dati del ministero dell’Economia e dell’Agenzia delle Entrate, ha portato alla luce una nuova ingiustizia sociale: la diversa distribuzione della pressione fiscale.
Secondo l’analisi l’Irpef, ovvero la prima imposta per gettito fiscale, un “balzello” che garantisce allo Stato tra i 160 e i 170 miliardi di euro annui in media, sarebbe pagata “soltanto” da poco più di 30 milioni di italiani, circa metà della popolazione residente, mentre la percentuale restante, anche escludendo i circa 8 milioni di connazionali sotto i 14 anni, non verserebbe un euro nelle casse dello Stato.
Ma è analizzando la metà dei contribuenti attivi che si manifesta il paradosso: circa il 45% di chi paga l’Irpef dichiara un reddito annuo sotto i 15mila euro, che sfruttando la miriade di detrazioni e deduzioni vuol dire un versamento annuo di poco più di 150 euro. Una cifra insufficiente sia a garantire la copertura delle spese mediche annue sia a evitare di pesare sulla collettività con le future pensioni. Anche un’altra grossa fetta dei contribuenti, quasi 6 milioni di italiani – quella che dichiara tra i 15 e i 20mila euro – versa un’imposta di circa 2mila euro che copre a malapena la spesa sanitaria pro capite.
Il grosso dell’Irpef, ovvero il 58% dell’imposta totale, pesa sul 12% dei contribuenti restanti, poco più di 5 milioni di soggetti, che dichiarano dai 35mila euro l’anno in su. Su questa platea si regge la prima imposta dello Stato e, è il caso di precisare, parliamo di cifre lorde, quindi di soggetti che con le loro entrate mensili conducono una vita che tra molte virgolette si potrebbe definire “normale”, non di certo standard qualitativi da emiri.
Si parla quindi del ceto medio, della “piccola e media borghesia” come si diceva una volta, di quella fetta di popolazione che è anche l’ossatura dell’economia di un Paese e che con le tasse di cui sopra, ma anche con risparmi o investimenti e soprattutto con i consumi, mantiene in vita uno Stato.
Ed è qui che al di là delle demagogie e delle retoriche dovrebbe focalizzarsi l’azione dell’Esecutivo, come suggeriscono a voci sinistramente a l’unisono Confindustria e sindacati, con il taglio del cuneo fiscale e più in generale con l’alleggerimento della pressione fiscale sui lavoratori dipendenti.
D’altra parte con un Pil appena sopra la linea di galleggiamento, come fotografato dalle previsioni di primavera della Commissione europea (previsioni che hanno più l’odore di cronache di morti annunciate che di potenti rivelazioni, tanto erano chiare a tutti gli osservatori), e con un deficit certamente fuori controllo e un debito in crescita e strozzato dai tassi di interesse, non si va molto lontano.
Non può bastare un’eventuale flat tax – indubbiamente utile per le economie in via di sviluppo ma non per la settima potenza industriale del mondo – e non si può puntare tutto sull’export, seppur performante con i suoi 563 miliardi di euro nel 2018, soggetto a logiche di commercio internazionali come i dazi statunitensi che, tra l’altro, tanta paura e tanta volatilità immettono nei mercati finanziari.
Occorre che il ceto medio, per dirla in maniera brutale, sia libero di consumare (ricordando che i consumi valgono oltre il 60% del Pil) e non di diventare uno dei fattori di indebolimento del ciclo economico.
Parrà forse un po’ squallido ma “è il capitalismo, bellezza“, ci siamo dentro da un pezzo e no, non si può più invertire la rotta. Diversamente, non solo la classe media non andrà in paradiso ma il paradiso – ovvero il benessere economico, evitiamo facili blasfemie – non esisterà più per nessuno.