Si stringe il cerchio delle authorities intorno alle grandi compagnie della Silicon Valley. Inedita convergenza bipartisan per ristabilire le regole del gioco, sfuggite ormai dal controllo nazionale. Tonfo in borsa dei titoli a causa dell’ipotesi “spezzatino” delle diverse aziende
Nel momento stesso in cui Facebook ha avviato le trattative con la Commodity Futures Trading Commission, l’agenzia governativa statunitense che regola i derivati finanziari, così da mettere a punto i prossimi passi per creare una propria valuta digitale, la brezza primaverile americana sta lasciando il posto a forti uragani estivi, perturbazioni pronte ad abbattersi sulla Silicon Valley, centro e cuore pulsante dell’innovazione mondiale. Possono un manipolo di piattaforme detenere e influenzare l’intero sistema del commercio, restringendo la concorrenza, e condizionando le scelte dei consumatori? È questa la domanda su cui – finalmente – tutta la politica a stelle e strisce si interroga, senza distinzione di colore.
Il new deal regolatorio sembra iniziato. Sotto la longa manus delle autorità federali si preparano a cadere le firme più rinomate dell’innovazione tecnologica: nel registro degli indagati dell’antitrust USA (ma non solo) Google, Amazon, Facebook e Apple. Ma stavolta si tratta più di un’analisi volta a scardinare i monopòli, favorire la concorrenza o limitare l’abuso di una posizione dominante. Stavolta – ed è questo il segnale politico più rilevante – la musica per i big di Internet sta cambiando. Nessuna compiacenza da parte dell’esecutivo repubblicano né tanto meno del Congresso statunitense, ma convergenza bipartisan politico-istituzionale volta a ridisegnare i nuovi rapporti di forza dentro e fuori dal web.
Non si può più fare finta niente. I giganti del web forniscono servizi che viaggiano sulla rete in condizioni sempre più autonome e indipendenti, operando al di fuori delle regole di settore, che non trovano applicazione nei loro confronti perché nate antecedentemente al loro ingresso sul mercato, spesso eludendo ogni imposizione fiscale, sfruttando le dimensioni «globali» del proprio business. La soluzione, chiusa ancora nei cassetti di Washington, sembrerebbe quello di “spezzettare” le diverse aziende in rami d’impresa più contenuti e facilmente controllabili. Tanto è bastato a Wall Street per far crollare i titoli delle big companies (Facebook ha lasciato dietro il 7,50%, Google il 6% e Amazon il 4,6%).
Leggere i segnali deboli, e come questi si combinano con la politica, ha la sua importanza, specie in questo caso: la Federal Trade Commission è pronta a mettere sotto stretta osservazione Amazon e Facebook, contemporaneamente il Dipartimento della Giustizia è pronto ad accendere un faro sulle pratiche adottate da Google, accusata di restringere la concorrenza. Nello stesso momento un comitato del Congresso ha avviato una propria indagine sulla concorrenza nei mercati digitali, mentre la candidata democratica alle primarie presidenziali Elizabeth Warren non ha esitato a dichiarare come «Google è troppo potente e sta usando tutta la sua influenza per piegare le piccole imprese, soffocare l’innovazione e inclinare il campo da gioco contro tutti gli altri: è il momento di reagire». Una manovra a tenaglia.
Ormai la misura sembra colma, e a dirlo non è solo lo Zio Sam. L’autorità australiana per la concorrenza ha sancito che le regole sul mondo dell’informazione online e nella pubblicità di Facebook e Google necessitano di nuovi paradigmi, soprattutto in tema di privacy (da qui la recente sanzione). All’inizio del 2019 l’India ha preso di mira il ruolo di Amazon nel mercato interno, chiedendo precise informazioni sui prodotti e sull’identità delle aziende venditrici sulla piattaforma di e-commerce. Sempre negli USA David Cicilline, presidente della sottocommissione antitrust della Camera dei rappresentanti, ha esortato la FTC a indagare sulle acquisizioni di Facebook dei rivali Instagram e WhatsApp rispettivamente nel 2012 e 2014. In tale ambito rimane ancora un nervo scoperto le centinaia di mail circolate negli anni passati a Menlo Park dalle quali sono emerse pratiche anticoncorrenziali in relazione a Vine, un’app video lanciata dalla rivale Twitter, ma non solo. Per non parlare, infine, dell’azione dell’Unione europea, che ha inflitto a Google pesanti sanzioni per accertati abusi di posizione dominante.
Sempre l’esecutivo di Bruxelles pare stia preparando un’indagine sulle pratiche di Apple a seguito di una denuncia di Spotify. L’azienda della mela morsicata è stata già sanzionata negli USA per aver concertato, in maniera anticoncorrenziale, il prezzo degli ebook con sei grandi editori, così da contrastare Amazon ed aumentare gli utenti Kindle. Una dimostrazione pratica di come anche la cultura, se non opportunamente regolata, rischia di falsare i mercati, la concorrenza e di ledere i diritti di consumatori e utenti.