«Le domande che dobbiamo porci e a cui dobbiamo trovare una risposta in questo momento di transizione sono così importanti da cambiare, forse la vita di tutti gli uomini e di tutte le donne, per sempre. È nostro dovere, ora, continuare a pensare… Pensare, pensare dobbiamo. Non dobbiamo mai smettere di pensare: che civiltà è questa in cui ci troviamo a vivere?». La modernità del saggio Le tre ghinee di Virginia Woolf
«Cosa si deve fare, secondo lei, per prevenire la guerra?»: così esordisce il saggio Le tre ghinee, tra i più belli di Virginia Woolf, redatto durante l’inverno 1937/1938 e pensato in soluzione di continuità con Una stanza tutta per sé. Anche in questo frangente Woolf utilizza una procedura efficace per portare avanti il suo punto di vista attraverso la creazione di un personaggio concreto con il quale interloquire: immagina che un avvocato, segretario di un’associazione antifascista, chieda a lei, e simbolicamente a tutte «le figlie degli uomini colti», di aiutarlo a prevenire la guerra e di sposare la sua causa contro i nazionalismi.
L’idea di questo saggio trae origine da una serie di eventi che a partire dal 1935 avevano in qualche modo avuto una ricaduta sulla scrittrice: la difficoltà nel riporre fiducia in un discorso politico di cui non comprendeva la vacuità delle parole, a ben vedere nessuno degli antifascisti era per lei immune alla seduzione del potere; poi ancora il risentimento nei confronti del suo amico e scrittore E. Morgan Forster, il quale le aveva comunicato che le donne non sarebbero state ammesse nel suo comitato contro il fascismo, seppure avrebbe fatto un’eccezione per lei; non ultima la morte del nipote Julian Bell, avvenuta nel 1937, durante il conflitto in Spagna, ove si era recato come volontario alla guida di ambulanze. La risposta a quella domanda – come si possono aiutare gli uomini a prevenire la guerra ‒ che tornerà anaforicamente per tutto il saggio, è frutto di una lunga riflessione a proposito di questi eventi. Impiegherà tre anni a maturarla, proprio per la natura di non ordinarietà del quesito: per la prima volta nella storia, infatti, il «figlio di un uomo colto» aveva chiesto alla «figlia di un uomo colto» di esprimere la sua opinione in relazione a un tema così attuale e urgente per l’epoca.
Due le premesse che consentono a Woolf di attuare una tale operazione: la classe sociale di appartenenza ‒ che le ha permesso di ricevere un’istruzione (seppure tra le mura domestiche) e quindi di possedere nozioni di politica, economia, rapporti internazionali, imprescindibili per comprendere le cause delle guerre ‒ in relazione alla quale si colloca come scrittrice affermata che vive dei proventi derivanti dal suo lavoro intellettuale; e una condizione storica, cioè la possibilità di accedere alle libere professioni, aperte alle donne in Inghilterra nel 1919. Questo evento, «il sacro anno 1919», le fa ritenere obsoleta la parola “femminismo”, perché se il voto era stato necessario – e per questo ringrazia le donne che avevano combattuto per ottenerlo – sarebbe stata ancora più importante la possibilità di guadagnare della propria professione. Anche se le posizioni aperte erano pressoché precarie e il peso che potevano esercitare sulla cultura era minimo, da quel momento vi è stata una reale speranza per le donne, figlie degli uomini colti, di influenzare la cultura. L’indipendenza economica si colloca quindi alla base dell’indipendenza di pensiero, un’osservazione che aveva già permeato la sua prima riflessione a proposito delle donne che volessero scrivere romanzi, e che qui si eleva ed estende alla società tutta.
Il testo è infatti una digressione su donne e uomini e sul sessismo, prima che un pamphlet contro la guerra: un aspetto che ne ha minato la ricezione fra i suoi contemporanei, i quali consideravano la causa delle donne molto meno urgente del fascismo dilagante, e che secondo Luisa Muraro rappresenta invece il valore aggiunto che rende Le tre ghinee «un saggio senza precedenti nella letteratura politica». Di fronte ai suggerimenti dell’avvocato che proponeva alle figlie degli uomini colti di sostenere la sua battaglia contro la guerra in tre modi ‒ sottoscrivere una lettera ai giornali, diventare membri della sua associazione, dare un contributo in denaro alla suddetta ‒ Woolf tuttavia sposerà altre due cause, perché a ben vedere coincidono con quella che egli stava portando avanti, e decide di spendere le tre ghinee in parti uguali: Una, Due, Tre sono infatti i titoli delle sezioni in cui è suddiviso il libro ‒ perché di una spartizione si tratta ‒accompagnate ciascuna da una motivazione.
Accanto alla lettera dell’avvocato, infatti, giacciono altre due lettere che contengono una richiesta di denaro. La prima è a firma dalla tesoriera onoraria del fondo per la restaurazione di un college femminile, alla quale le figlie degli uomini colti sono disposte a fornire il finanziamento, posto che il suddetto college educhi la gioventù a odiare la guerra: «dovrete insegnare loro la disumanità, la bestialità, l’insopportabilità della guerra». È evidente, infatti, che se i figli degli uomini colti si sono rivolti alle loro sorelle che fino a vent’anni prima conoscevano come unico lavoro il matrimonio e fino al 1870, quando furono istituiti i primi college femminili a Oxford e Cambridge, come unica forma di studio le lezioni in casa, la secolare istruzione impartita nei college maschili è stata fallimentare. A riprova, Woolf riporta una serie di fatti di violenza estratti da documenti e giornali che rimarcano come le migliori università del mondo non insegnino a odiare la violenza, bensì a farne uso, poiché instillano sentimenti di competitività e supremazia.
Il college femminile dovrà allora essere un luogo diverso, sperimentale, creativo, volto a insegnare le arti per se stesse e non incatenandole a vili finalità, un luogo senza barriere di etichetta e ricchezza, in cui la segregazione cede il posto all’integrazione. Qualora tutto questo fosse troppo utopistico, l’associazione riceverebbe lo stesso la ghinea perché se queste donne non riceveranno un’istruzione universitaria, non potranno guadagnarsi da vivere; e se non saranno in grado di vivere dei propri guadagni, torneranno a essere educate all’interno della casa paterna e finiranno quindi, ancora una volta, per esercitare tutta la loro influenza, consciamente o inconsciamente, in favore della guerra. Per poter essere ascoltate e credute occorre essere influenti, e il denaro rende influenti nella misura in cui permette di esercitare il pensiero in modo disinteressato, senza ricorrere a espedienti, come il fascino, per ottenere favori dai padri, fratelli e mariti, e dover accettare in cambio la loro cultura della guerra. Quindi – conclude Woolf – prima di donare una ghinea all’avvocato per la sua associazione, le figlie degli uomini colti la spenderanno per la ricostruzione del college femminile, giacché la causa che si è rivelata essere affine.
La seconda sezione del saggio ha per oggetto la richiesta di denaro della tesoriera onoraria di un’associazione che aiuta le figlie degli uomini colti a trovare lavoro nelle libere professioni. I college femminili, infatti, rilasciano alle donne meri titoli che impediscono loro di ricoprire di fatto quei ruoli. Woolf si avvale di una nutrita quantità di fonti per verificare questa realtà: consulta l’Almanacco Whitaker, numerose biografie, manuali di storia, di economia, di religione, e registra che tutte le posizioni apicali sono occupate da uomini usciti dai più prestigiosi college, mentre le donne sono poche e collocate ai livelli più bassi, in termini di salario e posizione, in genere sotto l’appellativo “signorina”. E ancora, estrapola citazioni da giornali ‒ arrivò a leggere fino a sette quotidiani al giorno per informarsi su ciò che stava accadendo all’Europa – per denunciare le discriminazioni che le donne subivano (subiscono?) non solo nell’ambito universitario, ma anche professionale: è evidente infatti il risentimento del sesso maschile nei confronti delle donne che lavorano, poiché «obbligano gli uomini a un ozio forzato», o meglio tradiscono il loro ruolo di moglie e madre. A questo proposito, Woolf osserverà:
«Là dentro, troviamo in embrione l’insetto che riconosciamo sotto altri nomi in altri paesi. Là sta racchiuso allo stato embrionale l’essere che, quando è italiano o tedesco chiamiamo Dittatore, un essere che è convinto di avere il diritto, se derivato da Dio, dalla Natura, dal sesso o dalla razza non ha la minima importanza, di imporre ad altri esseri umani come devono vivere, quello che devono fare».
Sull’onda di questa riflessione interroga l’avvocato, e con esso i lettori e le lettrici:
«E, dunque, la donna costretta a respirare quel veleno e combattere quel verme silenziosamente e senza armi, nel chiuso di un ufficio, non combatte forse contro il fascismo e il nazismo come chi lo combatte con le armi in pugno, con tanta fanfara e sotto gli occhi di tutti? Non sarebbe giusto aiutarla a schiacciare quel verme qui, nel nostro paese, prima di chiederle di aiutarci a schiacciarlo all’estero? E che diritto abbiamo noi, Signore, di predicare ad altri paesi i nostri ideali di libertà e giustizia, quando ogni giorno della settimana dai nostri giornali più influenti spuntano insetti come questo?».
Attraverso un’analisi puntuale e allo stesso tempo magmatica, come il fluire dei suoi pensieri, che sembra portare la riflessione lontano ma che poi arriva dritta al nocciolo del problema, Woolf rivela al mondo una verità rivoluzionaria, soprattutto perché detta da una donna in quegli anni: l’oppressione del sesso maschile su quello femminile, il patriarcato, è il germe del fascismo, e più ampiamente di ogni forma di oppressione.
La soluzione offerta dalle donne non potrà essere quindi quella di seguire il corteo dei figli degli uomini colti «che per tanto tempo abbiamo ammirato sui libri, o abbiamo osservato da dietro i tendaggi della finestra uscire di casa verso le nove e trenta per andare in ufficio o in studio, e ritornare a casa verso le sei e trenta», perché renderebbe le donne a loro somiglianza: possessive, gelose di qualunque violazione dei loro privilegi, e fortemente aggressive nei confronti di chiunque osi metterle in discussione. «Com’è possibile allora» ‒ domanderà la tesoriera, secondo quella tipica cifra della scrittura woolfiana, volta a sondare e decostruire tutte le possibili obiezioni al suo punto di vista ‒ «intraprendere le stesse professioni e rimanere essere umani civili, cioè essere umani che vogliono evitare le guerre?». Seguendo un altro percorso, avvalendosi di una genealogia tutta femminile: a questa condizione la seconda ghinea sarà consegnata alla tesoriera onoraria per aiutare le donne a intraprendere le libere professioni.
Le donne, infatti, sia le poche uscite dall’oscurità, come Florence Nightingale, Anne Clough, Mary Kinsley, Gertrude Bell, sia quelle rimaste nell’oscurità, hanno per secoli frequentato un’istruzione gratuita che consiste nell’esempio delle tante donne prima di loro. Le maestre dovranno pertanto essere le stesse di allora: la povertà, cioè denaro sufficiente per vivere e non dipendere da nessun altro essere umano; la castità della mente, quindi il rifiuto di vendere il cervello per denaro; la derisione da parte dei fratelli, necessaria per essere immuni alle lodi; e la «libertà da fittizi legami di fedeltà», quest’ultima la più grande maestra delle figlie degli uomini colti. Con libertà da fittizi legami di fedeltà Woolf intende la profonda differenza che distingue le donne dagli uomini: la libertà dall’orgoglio per la propria patria, per la religione, per l’università, per la famiglia, per il proprio sesso. Questi sentimenti non sono familiari alle donne perché le stesse istituzioni le hanno da sempre escluse o ridotte al silenzio.
Sull’onda di questa affermazione si arriverà alla terza lettera nonché alla sezione conclusiva del saggio in cui finalmente sarà fornita una risposta all’avvocato. Otterrà anche lui una ghinea, perché la causa è rispettabile, identica e inseparabile alle altre due, ma le figlie degli uomini colti non firmeranno il manifesto, né aderiranno alla sua associazione, ne rimarranno piuttosto fuori pur condividendone il fine: «affermare il diritto ‒ di tutti gli uomini e di tutte le donne ‒ a vedere rispettati nella propria persona i grandi principi della Giustizia, dell’Uguaglianza e della Libertà».
Le figlie degli uomini colti fonderanno piuttosto un’altra associazione, quella delle Estranee, un nome coerente con l’esperienza di esclusione delle donne, perché estranee a quella cultura, scevre da quei condizionamenti e quindi libere di avere una mente autonoma e disinteressata – non chiederanno più nulla in cambio perché l’unico diritto che abbia valore, l’indipendenza economica che si colloca alla base del libero pensiero, e cioè il denaro che «fornisce dignità a ciò che altrimenti sarebbe frivolo», lo hanno avuto. Le donne non potranno mai condividere il sentimento di patriottismo che si insegna ai ragazzi e che spinge gli uomini a difendere i confini tramite lo strumento della guerra, perché quella stessa patria le ha tradite: «As a woman I have no country. As a woman I want no country. As a woman my country is the whole world».
Tuttavia, è in virtù di quell’assenza che le donne potranno aiutare concretamente a difendere la cultura e la libertà di pensiero, difendendo la loro cultura e la loro libertà di pensiero: «Il modo migliore per aiutarvi a prevenire la guerra non è ripetere le vostre parole e i vostri metodi ma inventare nuove parole e nuovi metodi». Perché se alla radice del fascismo e dei nazionalismi giace il patriarcato, nel senso più ampio del termine, e cioè l’oppressione di un sesso su un altro – e qui giace tutto il genio di Woolf, che si colloca nella sua obiettività e nella capacità di offrire una soluzione che agisse a lungo termine e a livello sistematico ‒ allora gli uomini ne sono vittime tanto quanto le donne, perché sono stati nutriti di quei sentimenti sin dalla nascita. Le figlie degli uomini colti per contro non inciteranno i fratelli a combattere, ma cercheranno di dominare il loro istinto combattivo liberandoli dall’amore per le medaglie e per la patria, ispirando loro pensieri creativi, positivi, di bellezza e felicità, che andranno a contrastare quello sterile della paura che assopisce ogni attività del pensiero.
Con queste parole Virginia Woolf consegna al mondo il più grande dei suoi insegnamenti, e cioè la capacità di trasformare una mancanza, una discriminazione, nel più desiderabile dei valori, cioè la libertà. Solo l’outsider possiede un posizionamento veramente critico dal quale guardare al mondo per migliorarlo, una prospettiva privilegiata che consente di vedere di più proprio perché ne è al di fuori, in ossequio a quel principio della woolfiana fabbrica della conoscenza secondo cui scrivere – ma anche pensare ‒ è un modo di contribuire a trasformare la vita. E forse mai come alle società moderne occorre fare tesoro di queste parole per elaborare un nuovo modello di azione politica basato su un posizionamento da outsider che permetta di generare pensieri luminosi e differenti, ispirati ai principi di giustizia, uguaglianza e libertà, per tutti gli esseri umani, a prescindere dal colore della pelle, dalla religione, dal sesso:
«Le domande che dobbiamo porci e a cui dobbiamo trovare una risposta in questo momento di transizione sono così importanti da cambiare, forse la vita di tutti gli uomini e di tutte le donne, per sempre. È nostro dovere, ora, continuare a pensare… Pensare, pensare dobbiamo. Non dobbiamo mai smettere di pensare: che civiltà è questa in cui ci troviamo a vivere?»
Pensare con una mente autonoma è quindi la più grande delle responsabilità, affinché di fronte alla barbarie che ancora oggi ‒ come allora ‒ affligge l’umanità, possiamo orgogliosamente e consapevolmente affermare: «Not in my name».