Se al tempo della Prima Repubblica l’inaffidabilità di un alleato poteva portare ad un nuovo governo caratterizzato dalla stessa formula nella seconda le giravolte hanno sempre prodotto conseguenze politiche importanti, con ferite non sempre rimarginate. L’analisi di Luca Tentoni
di Luca Tentoni
Nel corso della lunga crisi di governo (aperta formalmente martedì 20 agosto, ma annunciata da Salvini circa due settimane prima) si sono palesate con evidenza due delle caratteristiche principali della Seconda Repubblica: una, ereditata dalla Prima, è l’impossibilità di avere fiducia nei propri stessi alleati (e colleghi di partito); l’altra, che ha caratterizzato l’ultimo quarto di secolo, è l’impossibilità di un momentaneo “vincitore politico” di mettere a frutto il consenso, anziché dilapidarlo dissennatamente (come accade, talvolta, a chi si aggiudica premi milionari ai concorsi, finendo per diventare in breve tempo più povero di prima).
Per semplicità, definiremo la prima caratteristica “lo stato di inaffidabilità” e la seconda “lo stato di dis-grazia”. Le giravolte politiche hanno caratterizzato l’intera storia repubblicana (nella Dc si assisteva a continui rimescolamenti e riposizionamenti tattici), ma – fino al 1993 – non avevano portato a grandi cambiamenti. Ad un governo se ne poteva sostituire un altro, composto più o meno dagli stessi ministri e sostenuto da tutti (o quasi) i partiti della maggioranza uscente.
All’estero la nostra instabilità governativa (che però non impediva ad alcuni ministri, come Andreotti, di restare al proprio posto per più di una legislatura, nonostante i cambi a Palazzo Chigi) era vista come un fenomeno poco più che folcloristico, mentre rappresentava la fisiologia di un sistema che, non avendo possibilità di sperimentare e tanto meno attuare l’alternativa, trasferiva le tensioni e le evoluzioni all’interno dei partiti dell’area di governo e delle correnti del soggetto politico centrale del sistema, la Dc. Se un Capo dello Stato, all’inizio della legislatura o durante una crisi, avesse chiesto ai partiti della nascente maggioranza l’assicurazione che il governo non sarebbe stato prima o poi “sgambettato” da qualcuno, gli astanti avrebbero sorriso (e anche il Presidente della Repubblica, che si sarebbe ben guardato dal rivolgere loro una domanda allora molto ingenua).
Oggi i rischi permangono, ma la domanda di stabilità non è più ingenua, perché le crisi comportano cambi di maggioranze, elezioni anticipate, in un quadro nel quale l’Italia non è più un partner fantasioso, ma un cardine dell’Unione europea e un paese soggetto al giudizio severo dei mercati finanziari. Inoltre, se al tempo della Prima Repubblica l’inaffidabilità di un alleato poteva portare ad un nuovo governo caratterizzato dalla stessa formula ma – al massimo – da un presidente del Consiglio diverso, nel 1994 (fine del primo governo Berlusconi), 1998 (fine del primo governo Prodi), 2008 (fine del secondo governo Prodi), 2014 (fine del governo Letta), 2019 (fine del governo Conte), tralasciando il 2011 (quando Berlusconi concluse il mandato travolto dalla crisi finanziaria e non dalla crisi che l’uscita di Fini e di Fli avrebbero dovuto e voluto provocare già un anno prima), nella Seconda le giravolte hanno sempre prodotto conseguenze politiche importanti, con ferite non sempre rimarginate.
Il “tradimento” in politica non è peccato, anzi sostanzialmente non esiste perché il concetto di fedeltà ha accezioni un po’ diverse rispetto a quelle correnti. Ecco perché è più praticato, anche se nella crisi di questo agosto i sospettati e i sospettabili di inaffidabilità sono tanti, forse troppi per una situazione così ingarbugliata. In questo quadro si inseriscono le velleità dei vincitori politici i quali – come ci ricordava per l’ultimo decennio Filippo Ceccarelli sulla “Repubblica” del 21 agosto scorso – sono spesso i peggiori nemici di se stessi. Invece di essere toccati da quella che si definisce “grazia di stato” (mutuata dal cattolicesimo) e che può fare di un uomo politico investito di una particolare responsabilità uno statista (come accadde a De Gasperi nel 1948, che – avendo vinto le elezioni politiche col 48,5% dei voti e potendo governare da solo – scelse di aprire le porte ai partiti centristi, “non andando al potere ma al governo” – come avrebbe detto Spadolini in Senato nel suo ultimo discorso, nel 1994, rivolgendosi a Berlusconi) molti possessori del “biglietto milionario” della lotteria elettorale sono riusciti a farsi inebriare dal potere e dalle sue lusinghe, finendo per smarrirsi e compiere errori fatali proprio nel momento in cui avrebbero avuto l’occasione per intraprendere una lunga marcia trionfale.
È successo a Berlusconi e Renzi, oggi accade a Salvini (un po’, se vogliamo, successe anche a Segni, vincitore dei referendum elettorali del 1991-’93 ma non in grado di capitalizzare il successo). In altre parole, sono passati dalla possibilità di entrare nello stato di grazia alla certezza di piombare in quello di dis-grazia. Di qui lo svilupparsi di sentimenti di rivincita che si sarebbero riverberati negli anni successivi (Berlusconi “perdonò” Bossi solo nel 1999-2000, dopo aver perso le elezioni politiche del 1996, per esempio) e la volontà di tornare il più presto possibile sulla cresta dell’onda (in quanto al centrosinistra, tralasciamo gli esempi per ragioni di spazio).
Durante la Prima Repubblica, solo Fanfani era capace di risorgere sempre da capitomboli clamorosi (la cacciata dal partito e dal governo nel 1959; il referendum sul divorzio perso rovinosamente nel 1974) dopo un po’ di tempo (attirandosi malumori e antipatie, tuttavia, come quando, nel corso di un’elezione presidenziale, si trovò a leggere su una scheda che stava scrutinando la frase “nano maledetto, non sarai mai eletto”) mentre c’era chi (Andreotti, Moro) evitava di andare sopra le righe nei periodi d’oro e sapeva ritirarsi al momento giusto, per poi tornare più in fretta e senza danni. Nel corso della Seconda, si è affermato e consolidato il deleterio principio secondo il quale “si va al potere, si prende tutto, non si fanno prigionieri”, comprimendo il dialogo fra forze politiche lontane e incoraggiando rivincite e ritorni che hanno talvolta reso più complesse situazioni politiche già abbastanza intricate.
Nella strana crisi del 2019 abbiamo visto Berlusconi tornato in gioco e pronto a chiedere a Salvini (da una posizione di forza, in un certo momento) di ricostituire il vecchio centrodestra dando a Forza Italia pari dignità (e ponendo fine al lungo “giro di valzer” dell’alleato leghista col quale si era presentato alle politiche del 2018 e che avrebbe voluto scaricare il Cavaliere per sempre); così Renzi, tornato da semplice senatore ma come leader di gruppi parlamentari in maggioranza a lui vicini, imporre a Zingaretti di non dire pregiudizialmente di no ad una trattativa col M5S (con un doppio cambio di posizione: fino alla crisi, i renziani erano i peggiori nemici dei pentastellati, mentre i seguaci del nuovo segretario del Pd erano considerati più possibilisti verso i Cinquestelle); così Di Maio, improvvisamente rimesso in gioco dagli errori di Salvini e dall’uscita di Renzi, che ha potuto prendersi il gusto di vedere l’ex collega vicepremier farsi bersagliare in Aula, al Senato, da un presidente del Consiglio a sua volta desideroso di far pagare al capo leghista il conto del ruolo gregario disegnato per il “notaio” del “contratto”; infine Salvini, che da vincitore si è trovato messo nell’angolo e medita vendetta (come fece a suo tempo Bossi, che tornando al governo con Berlusconi dopo il ’94 pretese riforma costituzionale, federalismo fiscale e persino tre ministri con sedi distaccate a Monza).
Si ritorna, così, alla crisi dei nostri giorni, fatta di vincitori che non sanno gestire le proprie fortune, di sconfitti che cercano rivalse e vendette, di posizioni politiche spesso più orientate alla convenienza del momento (un contratto di governo si può fare ormai con tutti, con estrema disinvoltura da parte dei contraenti di ieri, di oggi e di domani). Comunque finisca questa crisi, la politica italiana ha accumulato troppe tossine e troppi strappi alle poche regole di convivenza e di “ingaggio” rimaste. Il futuro che ci attende non appare roseo, perché non tutti i coltelli sono stati riposti nel fodero.