Il nuovo Primo Ministro ha subìto sconfitte brucianti nei suoi primi voti a Westminster: ok a nuova proroga per evitare il ‘no deal ’il 31 ottobre e no a elezioni anticipate. Nessuno sembra avere una strategia chiara, e nel silenzio aumentano i preparativi per l’uscita traumatica dall’Europa
Che la ripresa dei lavori di Westminster dopo la pausa estiva sarebbe stata piuttosto movimentata per il neo primo ministro Boris Johnson era facilmente prevedibile, ma in pochi potevano immaginare che nella settimana del rientro la Camera dei Comuni avrebbe regalato un’ampia serie di sviluppi per la telenovela Brexit, che sebbene giunta in prossimità delle sue fasi decisive si annuncia più incerta che mai.
Dopo l’annuncio di Johnson, arrivato negli ultimi giorni di agosto, in merito alla sospensione delle attività parlamentari dalla seconda settimana di settembre fino al 14 ottobre, i membri di Westminster di vario segno contrari a un’uscita disordinata del Regno Unito dall’Unione europea (l’ormai noto scenario del no deal) il prossimo 31 ottobre hanno infatti stretto un’alleanza trasversale, sulla base della quale hanno esposto il Primo Ministro a una serie di sconfitte brucianti, ancor più perché maturate in occasione dei primi voti in Parlamento riguardanti il suo Esecutivo.
In primo luogo, grazie all’appoggio di 21 deputati conservatori ribelli (espulsi seduta stante dal partito, malgrado tra loro figurassero l’ex ministro dell’Economia Philip Hammond e Nicholas Soames, nipote di Winston Churchill) la Camera dei Comuni ha approvato la proposta di legge dei laburisti che obbliga il premier a chiedere un ulteriore rinvio della data di separazione di Londra da Bruxelles al 31 gennaio 2020, qualora entro il 19 ottobre non venga raggiunta alcuna intesa sul divorzio. Al momento il provvedimento è in corso di discussione nella Camera dei Lord, che dovrebbe terminare il proprio esame entro domani pomeriggio, in modo da consentire a Westminster di dare il via libera definitivo al testo al più tardi lunedì 9 settembre.
Boris Johnson ha reagito con durezza al voto dei deputati, ribadendo la propria assoluta indisponibilità a rinviare la soluzione del dossier Brexit oltre il 31 ottobre e sostenendo che solo la minaccia del no deal può convincere l’Europa a fare in extremis concessioni negoziali alla Gran Bretagna (tuttavia, il Primo Ministro non ha chiarito se ci siano stati sviluppi nelle trattative con l’Ue). Soprattutto, il leader dei Tories ha scelto di giocare la carta del voto anticipato, chiedendo l’ok a una mozione che mirava a sancire il ritorno alle urne per il 15 ottobre; pure in questo caso l’esito del dibattito è stato rovinoso per il Capo del Governo, dal momento che la proposta di tenere le terze elezioni generali dal 2015 a oggi ha ampiamente mancato la soglia dei due terzi di voti favorevoli prevista dal regolamento di Westminster.
Come se non bastasse, in queste giornate il premier ha altresì dovuto incassare la perdita in diretta della propria maggioranza nella Camera dei Comuni (martedì 3 settembre l’ormai ex deputato conservatore Philip Lee è andato a sedersi tra i banchi dei Liberaldemocratici proprio mentre Johnson aveva la parola) e le dimissioni da parlamentare e sottosegretario, annunciate stamattina, del fratello pro Remain Jo Johnson, il quale ha ammesso di non poter più sostenere il suo dissidio tra lealtà familiare e fedeltà agli interessi della Nazione.
Cosa potrà accadere da qui ai prossimi giorni è realmente difficile da prevedere, dal momento che, se è vero che Boris Johnson si trova in un vicolo cieco a poco più di un mese dal suo arrivo a Downing Street, anche gli altri attori in gioco hanno dimostrato di non avere una strategia chiara al di là del no alla rottura traumatica dei rapporti con l’Unione europea. Solo per fare l’esempio più eclatante, dopo aver per mesi reclamato la necessità di dare la parola agli elettori per dirimere la questione Brexit una volta per tutte, il leader del Labour Jeremy Corbyn si è ora detto contrario a nuove elezioni finché non sarà entrata in vigore la proposta di legge anti no deal approvata dai Comuni, e non è escluso che la sua posizione possa cambiare ancora, in quanto sono numerosi gli esponenti del principale partito di opposizione disposti a tornare al voto soltanto in presenza di una proroga ufficiale del termine del 31 ottobre.
A quanto risulta dalle ultime indiscrezioni, lunedì prossimo il Primo Ministro dovrebbe provare nuovamente a ottenere la riapertura dei seggi per il 15 ottobre, e qualora andasse incontro a un’ulteriore bocciatura da parte di Westminster non è escluso che possa studiare soluzioni inedite (rese possibili dall’assenza di una Costituzione scritta nel Regno Unito) pur di raggiungere il proprio obiettivo e condurre una campagna elettorale all’insegna dello slogan ‘Parliament vs People’, cercando di massimizzare il sostegno dei Leavers facendo tramite un costante richiamo ai presunti ostacoli frapposti dai deputati alla volontà popolare espressa con il referendum del 2016.
In un panorama sempre più incerto e segnato da un inasprimento pressoché totale del dibattito pubblico, l’unico punto di riferimento è dato dal countdown che separa la Gran Bretagna da un divorzio senza regole per il quale dietro le quinte stanno aumentando, tanto a Bruxelles quanto a Londra, i preparativi. Decisivo per scongiurare il salto nel vuoto potrebbe essere il Consiglio Ue in programma il 17 e il 18 ottobre, ma a oggi risulta impossibile immaginare chi e con quale posizione rappresenterà il Regno Unito in quell’occasione, senza dimenticare che la tenuta stessa del Paese sta subendo uno stress notevole, che potrebbe addirittura minacciarne l’unità nel breve termine (le autorità scozzesi sono tornate a parlare con insistenza di un nuovo referendum per l’indipendenza, dopo il tentativo fallito del 2014).