Che solidità può avere una coalizione politica che non ha alcuna prospettiva elettorale, visto che i giochi per il successivo Esecutivo si faranno non prima ma dopo il voto, ciascuno con le mani completamente libere?
di Stefano Caviglia
L’approvazione del Rosatellum, il 26 ottobre 2017, sembra oggi un evento remoto, ma è ancora quel sistema elettorale a dare il tono alla politica italiana. Si vede soprattutto da due costanti che accompagnano la nostra vita pubblica dalle prime elezioni tenutesi con le sue regole, il 4 marzo 2018: fibrillazione continua dei governi (Conte 1 e 2) e grande difficoltà a mettere in campo decisioni che guardino più lontano del giorno per giorno.
Entrambi questi elementi ci riportano dritti al tempo della Prima Repubblica, quando l’Italia votava con il proporzionale puro, i governi duravano in media poco più di un anno (quello di oltre due anni e mezzo guidato da Bettino Craxi nel periodo 1983-86, veniva preso a esempio come una specie di miracolo) e il debito pubblico lievitava in modo inarrestabile, attraverso sessioni parlamentari di bilancio per cui, evocando i film western prima maniera, fu coniata la metafora dell’«assalto alla diligenza».
Quel ciclo politico si interruppe con le elezioni del 1994, con la prima applicazione del sistema elettorale prevalentemente maggioritario chiamato Mattarellum (dal nome dell’attuale Presidente della Repubblica), lasciando in eredità ai cittadini un debito pubblico oltre il 120 per cento del Pil, più o meno il doppio di quello di Germania, Francia e Spagna, di cui si sente ancora il peso.
La letteratura sugli effetti politico-economici dei sistemi elettorali è ampia e controversa. Ma, almeno per un Paese politicamente frammentato come l’Italia, la concatenazione fra i vari elementi sembra evidente: se la competizione fra i partiti si svolge “tutti contro tutti” (con una lotta tanto più aspra quanto più sono vicini i rispettivi elettorati) è quasi impossibile resistere alla tentazione del gioco del “più uno”, che consiste nel cercare di intestarsi sempre e comunque il maggior numero di benefici immediati per i vari segmenti elettorali. Con tanti saluti agli obiettivi di bilancio dei governi e alla loro stabilità.
Ora, il Rosatellum con cui si è votato alle Politiche del 2018 è un sistema proporzionale, corretto da un 30% di maggioritario che in realtà corregge molto poco. In base ai suoi meccanismi, una coalizione con più del 40% dei voti dovrebbe, in teoria, ottenere la maggioranza in Parlamento, grazie all’effetto dei collegi uninominali. Ma nella situazione italiana attuale il raggiungimento di quella soglia è impervio e, come se non bastasse, da mesi si dà per scontato che tale sistema debba esser sostituito da un proporzionale puro.
La conseguenza è che i partiti al governo si comportano da due anni secondo una logica pienamente proporzionale. Non senza ragione. Che solidità può avere una coalizione politica che non ha alcuna prospettiva elettorale, visto che i giochi per il governo successivo si faranno non prima ma dopo il voto, ciascuno con le mani completamente libere? Si possono leggere in questo modo i tentativi continui di Italia Viva e 5 Stelle di piantare bandierine per rendersi visibili ai rispettivi elettorati, come pure la valanga di emendamenti piovuta sulla Legge di Bilancio. Naturalmente, a scapito della navigazione presente e futura del governo di Giuseppe Conte.
A far resistenza a questa logica all’interno del governo c’è oggi solo il Pd di Nicola Zingaretti, che non per nulla ha improvvisamente fatto sapere di preferire il maggioritario (ma non era necessario il proporzionale puro per compensare la minore rappresentatività derivante dal taglio dei parlamentari approvato a inizio ottobre?). Qualcuno ha scritto perfino che per questo si starebbe già lavorando a un accordo con la Lega. Peccato che in Parlamento non ci siano i numeri per nulla del genere, a meno di un clamoroso cambio di linea dei 5 Stelle, che ancora oggi, in coerenza con la vocazione a correre da soli alle urne, sostengono a spada tratta il proporzionale.
Si arriva così al punto attorno al quale è destinata a ruotare la politica italiana nelle prossime settimane e forse nei prossimi mesi: la scommessa di Zingaretti di poter costruire un’alleanza strategica fra Dem e 5 Stelle. Il progetto, già mezzo affondato dai rifiuti di Luigi Di Maio, sembrava esser stato sepolto dal voto della piattaforma Rousseau per la presentazione di liste autonome del Movimento in Emilia Romagna. Finché non è arrivato in soccorso Beppe Grillo, che con la sua ultima uscita pubblica ha rimescolato tutte le carte del Movimento.
Riuscirà Grillo a vincere le resistenze di militanti e dirigenti, per condurre i 5 Stelle dove vuole lui? Questo al momento non può saperlo nessuno. Ma in caso contrario i conti andranno fatti con il Rosatellum. Ed è abbastanza difficile che, restando in vigore quel sistema, Zingaretti possa mantenersi a lungo nella posizione di granitico sostegno al governo, mentre altri traggono vantaggio ogni giorno dal picconarlo. Sarebbe un caso clamoroso di leader politico che si ostina a resistere alla logica del sistema elettorale.