La netta vittoria dei Conservatori nelle elezioni del 12 dicembre (365 seggi sui 650 di Westminster) dà inizio al processo che il 31 gennaio 2020 porterà il Regno Unito a uscire dall’Unione europea. Ma il divorzio sarà solo la prima tappa di un percorso che dovrà concludersi con la definizione di un difficile accordo sulle future relazioni tra Londra e Bruxelles
È arrivato il momento della svolta per la telenovela Brexit che nei tre anni e mezzo trascorsi dal referendum del giugno 2016 è costata il posto a due Primi Ministri (David Cameron e Theresa May), trascinando Westminster e l’intero Regno Unito nelle divisioni e incertezze più profonde.
Il trionfo dei Conservatori di Boris Johnson nelle elezioni di giovedì 12 dicembre segna infatti un punto di non ritorno per l’intera vicenda, dando avvio al processo che porterà il 31 gennaio 2020 all’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea. I 365 seggi ottenuti dal partito dell’attuale Primo Ministro sui 650 totali della Camera dei Comuni (miglior performance elettorale dei Tories dall’ultima vittoria di Margaret Thatcher nel 1987) rappresentano un netto mandato popolare per la ratifica dell’accordo raggiunto dall’ex Sindaco di Londra con i vertici Ue lo scorso ottobre, che a questo punto dovrebbe avvenire già prima di Natale, in modo da permettere l’adozione di tutti gli atti formali per il divorzio tra Londra e Bruxelles entro la fine del mese prossimo.
La scommessa di Johnson di puntare tutto su una campagna elettorale giocata all’insegna dello slogan Get Brexit done (Portare a compimento la Brexit) per spazzare via lo stallo che si era venuto a creare in Parlamento si è quindi rivelata una decisione impeccabile, come testimoniato dai 66 seggi in più conquistati dai Conservatori rispetto al voto del 2017 e, soprattutto, dai successi riportati dal partito di governo nelle aree postindustriali dell’Inghilterra del Nord, storicamente fedeli ai Laburisti (in alcuni collegi non era mai stato eletto un deputato Tory) ma che nel 2016 avevano scelto il Leave. L’attuale inquilino di Downing Street, in aggiunta, è stato abile tanto a sfruttare a proprio vantaggio l’estenuazione verso il tema della separazione dall’Europa di ampi settori dell’elettorato britannico quanto a prosciugare il bacino di voti del Brexit Party di Nigel Farage, che non avrà alcun rappresentante a Westminster.
Se le urne hanno premiato in tutto e per tutto il partito di Boris Johnson, il grande sconfitto è senza dubbio il Labour di Jeremy Corbyn, che ha riportato il peggior risultato dal 1935 in avanti: 203 seggi, 42 in meno di due anni fa. I Laburisti hanno evidentemente pagato l’ambiguità del loro leader sul dossier Brexit (solo dopo lunghi tentennamenti Corbyn ha accettato di abbracciare la campagna per un secondo referendum, ormai ridotta al rango di utopia), l’eccessiva radicalità di un programma basato su nazionalizzazioni, aumenti di tasse per i più abbienti e redistribuzione di risorse in favore dei lavoratori, e i tentennamenti dei vertici nel prendere provvedimenti contro i casi di antisemitismo emersi negli ultimi mesi all’interno del partito. Jeremy Corbyn ha annunciato che non sarà più alla guida della formazione quando si terranno le prossime elezioni generali, rifiutandosi tuttavia di dimettersi con effetto immediato.
Tra le forze pro Ue l’unica a sorridere è il Partito Nazionale Scozzese (SNP), che ha prevalso in 48 dei 59 collegi in cui è suddivisa la Scozia, vedendo così rafforzate le richieste di un secondo referendum sull’indipendenza di Edinburgo dal resto della Gran Bretagna, dopo il tentativo fallito del 2014. Per quanto riguarda invece i Liberaldemocratici, il movimento che aveva deciso di abbracciare la revoca tout court dell’uscita del Regno Unito dall’Ue vede ridotta da 21 a 11 la propria delegazione nella Camera dei Comuni, con la leader Jo Swinson costretta alle dimissioni dopo essere risultata sconfitta nella propria circoscrizione elettorale.
Nel suo discorso di celebrazione della vittoria, Johnson ha assicurato che è sua intenzione sanare la frattura sociale che si è creata tra sostenitori del Leave e fautori del Remain e permettere al Paese, una volta definite le nuove relazioni con l’Europa, di guardare al futuro, concentrandosi in primis sui miglioramenti da apportare al sistema sanitario e al mondo della pubblica istruzione. Ciò nonostante, il compito che attende il Primo Ministro è tutt’altro che agevole, dal momento che il divorzio da Bruxelles rappresenterà solo la prima tappa di un percorso che dovrà portare, entro il 31 dicembre 2020, alla definizione dei rapporti con l’Unione in un insieme piuttosto ampio di settori: dal commercio alla sicurezza, dalla difesa alla pesca, passando per agricoltura, protezione dei dati e ricerca scientifica. In altri termini, negli undici mesi che mancheranno alla fine del periodo di transizione (durante il quale rimarrà tutto invariato) il Governo britannico dovrà stringere un tipo di accordo che normalmente gli Stati impiegano anni a negoziare.
Dunque, con la sua affermazione elettorale Boris Johnson ha dato ulteriore dimostrazione di essere efficace quando si tratta di raccogliere consensi, ma da ora in poi dovrà dare prova di essere un uomo politico responsabile e lungimirante. Data l’imprevedibilità e l’esuberanza del personaggio, ci si può attendere qualsiasi epilogo che vada dalla scelta di una soft Brexit all’assenza di ogni vincolo futuro con Bruxelles, magari con l’occhio rivolto agli Stati Uniti e ai Paesi del Commonwealth. Di sicuro, non saranno poche le insidie esterne e interne in grado di guastare la luna di miele tra il Primo Ministro e i cittadini britannici.