Il segretario dem ha annunciato una rifondazione per dopo le elezioni in Emilia-Romagna e Calabria. Obiettivo: allargare i confini e aprirsi alla società civile (Sardine in primis) per raggruppare l’elettorato progressista. Ma il successo dell’operazione dipenderà dal rilancio del Conte II e dal rinvio delle discussioni sui nomi a dopo il confronto sulle idee
Ancora una volta dalla sua fondazione, avvenuta nell’ottobre 2007, il Partito Democratico si trova di fronte a un dilemma cruciale per il proprio futuro: cambiare e rischiare di smarrire la propria anima, o rimanere dov’è a costo di rinunciare alla sua vocazione di riformare il Paese.
Con l’annuncio del segretario Nicola Zingaretti (arrivato sabato scorso sulle colonne di Repubblica) di voler rifondare il Pd dopo le elezioni in Emilia-Romagna e Calabria, dando vita a un “partito nuovo” aperto alle istanze della società civile e dei movimenti che nelle ultime settimane hanno riempito numerose piazze, la principale forza del centrosinistra italiano dà avvio a una fase dal cui successo dipenderanno le sue prospettive all’interno dello scacchiere politico, ormai sempre più avviato verso il ritorno a un bipolarismo di fatto (l’attuale crisi del Movimento 5 Stelle è tutt’altro che estranea a questa dinamica).
In quest’ottica, se nel campo del centrodestra i giochi sembrano essersi chiusi con l’egemonia conquistata dalla Lega e dal suo leader Matteo Salvini, sul versante progressista si registra la presenza di una pluralità di soggetti al momento non in grado di dare un indirizzo unitario a quegli elettori che non si riconoscono nel modello di società proposto dall’ex ministro dell’Interno. In poche parole, allo stato attuale manca un soggetto che si carichi sulle spalle il peso dell’alternativa alla coalizione conservatrice a trazione sovranista, e le caratteristiche per ricoprire un simile ruolo le presenta solo il Partito Democratico, che malgrado gli errori commessi negli anni dai propri leader, le scissioni subite (ultima in ordine di tempo, quella promossa da Matteo Renzi lo scorso settembre) e la disfatta del 4 marzo 2018 nei sondaggi viaggia intorno al 20% dei consensi, attestandosi come seconda forza a livello nazionale.
Dunque, per poter essere davvero competitivo quando gli italiani saranno chiamati alle urne, da qui al 2023 (data di conclusione naturale della Legislatura, al momento lontana come un miraggio), il Pd ha l’estrema necessità di allargare i propri confini e di rendersi attrattivo nei confronti dei tanti che ora non appaiono disponibili a sostenerlo, a partire dagli ambienti che ruotano attorno al movimento delle Sardine, nei confronti del quale Zingaretti professa massimo ascolto e disponibilità a fornire risposte. Un processo di apertura e di ridefinizione complessiva delle linee programmatiche del partito, che dovrà essere condotto a prescindere da un’ipotetica alleanza con M5S (almeno fino agli Stati generali previsti per metà marzo, i pentastellati non scioglieranno le ambiguità sul loro posizionamento) e che poggerà su alcune delle modifiche apportate allo Statuto dem dall’Assemblea Nazionale riunitasi a novembre: in primis, la possibilità di celebrare Congressi tematici, non finalizzati esclusivamente all’elezione di un nuovo gruppo dirigente.
La mossa del segretario trova pertanto fondamento nel contesto politico presente e futuro, ma affinché il piano si traduca in una svolta effettiva dovranno essere superati due ostacoli: il rilancio dell’azione del governo Conte II e la naturale tendenza, in queste circostanze, a discutere prima di nomi e poi di idee. Nel primo caso, il ‘nuovo’ Partito Democratico per essere credibile dovrà inevitabilmente affermare con chiarezza le sue posizioni sui principali temi del momento: dal rilancio della crescita economica alla sostenibilità ambientale e sociale, fino ad arrivare alla lotta alle disuguaglianze, al contrasto alla disoccupazione giovanile e alle politiche da attuare in ambito di immigrazione, in modo da far sì che l’Esecutivo in carica segni una chiara discontinuità rispetto all’esperienza del contratto tra Movimento 5 Stelle e Lega. Nel secondo, Nicola Zingaretti potrà rendere tangibile la svolta da egli immaginata solo e soltanto se gli immancabili dibattiti sulle nomenclature e sui cambi di nome (il sottosegretario all’Ambiente Roberto Morassut ha prontamente suggerito di ribattezzare il Pd ‘I Democratici’) arriveranno dopo un confronto approfondito sulla strada da intraprendere dai prossimi mesi in avanti, e non prima che questo si svolga.
Dopo oltre 12 anni di vita, all’insegna di alti e bassi sempre accompagnati da una vivace dialettica interna, il Partito Democratico sembra essere arrivato al momento della verità. Se non sarà in grado di attrezzarsi al meglio per le sfide che attendono l’Italia, non avrà altre occasioni; Zingaretti sembra averlo compreso, sugli altri maggiorenti e capicorrente della formazione non vi è certezza.