Quindici ministri scelti fra i partiti della vastissima maggioranza che, almeno nelle intenzioni emerse dalle consultazioni a dir il vero poco frenetiche di questi giorni, sosterranno il governo dalle intese più larghe della storia repubblicana, sono il segnale chiarissimo di quanto, in questi diciassette lunghi giorni dalle dimissioni di Giuseppe Conte, quello dei contenuti e delle riforme necessarie per uscire dall’emergenza sanitaria sia stato comprensibilmente un tema secondario rispetto alla composizione di uno scacchiere così complesso e variegato.
Diciamo subito che LabParlamento, da osservatore neutrale quale è sempre stato, aveva da subito auspicato un governo di altissimo profilo per poter adottare quelle misure necessarie, e in alcuni casi anche dolorose, per imprimere i cambiamenti di cui l’Italia ha bisogno e sui quali sappiamo benissimo che la politica tutta ha miseramente fallito. Difficile e forse anche sbagliato giudicare se ciò sarà realizzabile soltanto fermandosi ai nomi indicati da Draghi che oggi giureranno solennemente al Quirinale. Eppure qualcosa in più ce lo saremmo attesi, proprio in virtù dell’eccezionale momento storico e di un’emergenza sanitaria ed economica la cui via d’uscita appare tutt’altro che vicina. Elementi che avrebbero consentito a Draghi di tirare molto la corda con i Partiti, costringendoli all’angolo, invece di dargli di fatto carta bianca nella riconferma di vecchi ministri o, peggio, nella riproposizione, di alcuni saltati dal precedente governo gialloverde. Una trattativa che, ci spiace dirlo, è stata perfettamente in linea con quanto già visto negli anni passati, con ministri costretti a dimettersi e poi ricollocati alla prima occasione.
Eppure, ecco il primo grande successo di Mario Draghi. Che ci volesse il banchiere d’Europa col tricolore (poco in vista) nel taschino per mettere allo stesso tavolo Boldrini e Salvini, Di Maio e Berlusconi, facendoli brindare al governissimo del tutti per uno o tutti per tutti, questo era chiaro fin da subito e va riconosciuto in questo la magistrale guida del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, il cui settennato al Quirinale non passerà certo inosservato agli storici.
Di dati, stando solo ai numeri emersi spulciando qua e là i profili e i curricula dei nuovi ministri, ce ne sono molti. Ma quello che più è evidente e sul quale nelle prossime settimane dovremmo interrogarci, è la scelta di Mario Draghi di costituire l’esatto opposto di un governo tecnico, con una squadra composta da 2/3 di ministri politici, in attesa della vagonata di nomine tra vice ministri e sottosegretari che, nelle consuetudini parlamentari, probabilmente porteranno la percentuale dei tecnici presenti nell’esecutivo a numeri pressocchè irrilevanti.
Il primo dato, quindi, è il riscatto dei Partiti, che impongono al Quirinale e al premier nomi e scelte importanti, caricandosi di fatto anche una grandissima responsabilità davanti agli italiani. Questa volta, infatti, in pochi saranno pronti a perdonare un’ennesimo fallimento della politica. Un atto di responsabilità o una scelta obbligata dal timore, tuttosommato condiviso, di portare il Paese alle urne? Difficile dirlo.
Il Movimento 5 stelle incassa intanto quattro ministeri, essendo, manuale Cencelli alla mano, il principale gruppo politico in Parlamento. Tre dicasteri vanno invece a esponenti della Lega, di Forza Italia e del Pd, uno a testa ai fratelli, o fratellastri, più piccoli, Italia viva e Leu. Senza contare, come accennato sopra, ai pullman che nei prossimi giorni scaricheranno nei ministeri romani pletore di sottosegretari, vice ministri e consiglieri vari, pronti a completare l’organico e a riempire slot con incarichi per le correnti dei partiti ad oggi poco sfamate.
Da non sottovalutare anche la scelta di affidare agli otto tecnici scelti personalmente da Draghi ben sette dicasteri con portafoglio, unico atto di “forza” di un premier la cui sfida resta impervia ma che certamente, avendo messo due terzi del governo nelle mani di tutti i partiti potrà usare la giusta moral suasion richiamandoli alle responsabilità che una situazione drammatica come quella che stiamo vivendo richiede. Gli altri ministeri con capacità di spesa spetteranno rispettivamente zero su tre a FI, tre su tre al Pd, due su quattro al M5S, uno solo ma strategico, il Mise, nelle potenti mani del numero due leghista, Giorgetti, e la Salute, riconfermata a Leu con il ministro Speranza.
Per il cronista parlamentare si prospettano mesi difficili da raccontare, con una maggioranza quasi bulgara, ad esclusione di Fratelli d’Italia, unico partito politico ad aver rivendicato il ruolo della democrazia parlamentare chiedendo di restituire la parola agli elettori, per non essere commissariati dai tecnici prestati alla politica. Peccato, cara Giorgia, che l’atto di forza, almeno stando ai nomi, fin qui, verrebbe da dire, l’hanno imposto i partiti a Draghi e Mattarella dando il via libera al governo di tutti, escluso appunto Fdi.
Questi, ad oggi, i primi dati. Sul profilo altissimo degli otto angeli custodi scelti da Draghi, nulla da dire. Si tratta di personalità di livello elevatissimo, come quello del neo ministro della Giustizia, Marta Cartabia, unica donna ad aver ricoperto il ruolo di Presidente della Corte Costituzionale. Sarà curioso vedere come i tecnici portati da Draghi a palazzo Chigi riusciranno a contenere spinte e pressioni dei colleghi politici a partire dalla prossime sfide che porteranno subito l’esecutivo Draghi a scontrarsi con scelte fondamentali per difendere l’economia e i posti di lavoro messi a rischio con l’emergenza sanitaria.