Il riscatto. La mattata. Il potere. La caduta. Eccole qui le quattro fasi della segreteria Zingaretti, di certo le più travagliate e imprevedibili di qualsiasi altro mandato dei suoi immediati predecessori. Che comunque si chiamavano Renzi, Epifani, Bersani, Franceschini e Veltroni. Alcuni di essi militano ormai fuori dal Pd, anzi dei democratici sono diretti concorrenti, se non acerrimi critici. Altri si sono ritirati, in attesa di miglior vita, politica. Altri ancora, nonostante nessuna carica ricoperta nel partito, sembrano i reali detentori del futuro che sarà.
Forse non è un caso che proprio nel giorno in cui la stampa racconta di un allargamento della maggioranza che sostiene Zingaretti in regione, egli ritenga di fare un passo indietro nel partito, aprendo una crisi al buio che peserà, eccome, negli equilibri istituzionali, economici e relazionali. La sua vittoria alle primarie, chiara e netta, anche nel senso del cambiamento, dopo un quinquennio di dominazione renziana, non ha tuttavia prodotto la rivoluzione che la ex “ditta” si aspettava.
Ha rinunciato ad un ruolo governativo per ben due volte e ha il merito di aver riportato il Pd al governo – nonostante una sonora sconfitta – non ha prodotto quel “lasciate che i pargoli vengano a me” che taluni si attendevano. E su cui scommettevano. I fuoriusciti dell’ex sinistra Ds non sono tornati. Alcuni, ma non tutti, renziani, hanno abbandonato la ditta e la maggioranza in direzione, Zingaretti-Franceschini-Orlando, non ha quindi mai potuto sfondare. Il COVID, poi, ha scippato quei cinque mesi di luna di miele su cui il governo giallorosso avrebbe voluto contare.
L’assenza di protagonismo, pure con i cinquestelle in crisi nera, ha permesso a Renzi di dettare la linea della crisi, vincendone sostanzialmente le tappe, e relegando il Pd, proprio come il M5S, ad assistere da spettatore – quasi esterno – del nuovo status quo. Renzi e Salvini sono quindi usciti, da vincitori, dall’isolamento. Chi per numeri, chi per spazi, i due Mattei hanno incassato una vittoria che ha portato poi all’uscita di Giuseppe Conte (il vero obiettivo trasversale) e all’indebolimento del Pd. Insomma, secondo la manualistica cencelliana, Zingaretti è sembrato Napoleone a Waterloo.
La contestazione interna, in primis per la mancata nomina di una sufficiente delegazione femminile in quota Pd, ha aperto una voragine che si è unita allo scontento, naturale, della progressiva perdita di ministeri chiave. E poi, l’avvicinarsi della scadenza del mandato da segretario, ha fatto sì che il dibattito, da molti reclamato, sia diventato già da ora un congresso aperto.
Se Nicola Zingaretti – gli va riconosciuto – ha dimostrato un coraggio non trascurabile nel rinunciare ai veti incrociati, riportando un Pd malconcio ad essere tra i decisori della politica che conta, dall’altro lato non è riuscito a cannibalizzare i “rivali-alleati”, così come in pochi mesi aveva fatto Salvini. E alla fine, come D’Alema e come Veltroni, dei quali è un po’ la sintesi politica, ha dovuto fare un passo indietro.