L’avvocatura è una professione women friendly? La prima osservazione è che anche la professione forense non sfugge alla statistica generale: circa la metà degli iscritti agli albi forensi sono donne, vale a dire circa 120mila avvocati. Malgrado ciò, sempre in linea con le statistiche, pochissime sono le donne ai vertici degli Ordini italiani, delle Associazioni maggiori, degli Organismi ordinistici regionali; ancora pochi gli studi professionali di grosse dimensioni guidati da donne.
Che importa se molte donne aprono la propria “bottega”? E’ nell’opinione pubblica che eccetto uno-due nomi in ambito nazionale, le più sono le tante. E se agli inizi dell’Ottocento vi erano ragioni sociali e legislative di stampo compressivo, oggi tutto ciò appare privo di spiegazioni logiche. Che il problema stia tutto nell’appellativo: avvocato o avvocata? E perché non avvocatessa?
Sembra che la parità di genere possa comporsi coniugando al femminile un termine che ha nel suo stesso significato la giusta coniugazione. Seppure sul piano grammaticale non è errato, sul piano comunicativo è orribile. Rende l’impressione che l’ingresso di donne in professioni o funzioni storicamente nate e mantenute riservate agli uomini fino ad epoche più o meno recenti, trovi in ciò la propria legittimazione e pienezza sociale.
Facciamo così, portiamo il problema all’evidenza della Commissione Pari Opportunità, la cui sola esistenza certifica l’esistenza di un problema. Al pari delle c.d. “quote rosa”: è un obbligo normativo che determina la rilevanza numerica? Non credo che Lidia Poet, prima donna ad essere iscritta all’albo degli avvocati in Italia (precisamente a Torino, ove provò ad iscriversi sin dal 1883 senza riuscirvi), avesse la propria aggettivazione come primario problema.
Né penso avesse questa preoccupazione quando poté iscriversi, dopo la Legge Sacchi del 1919, che autorizzava ufficialmente le donne ad entrare a far parte dei pubblici uffici, eccetto la magistratura, la politica e i corpi militari. Da quel momento le donne poterono esercitare (sulla carta) tutte le professioni e coprire tutti gli impieghi pubblici.
E’ dunque quella la data che segna il momento in cui la professione forense ha iniziato a colorarsi di rosa, dapprima con puntini sparsi, e poi con una tinta uniforme su metà della bandiera, in un cammino lungo e faticoso. Un interessante saggio pubblicato da Cassa Forense (n. 3/2018, “Donne e Avvocatura: storia di passione, coraggio e tenacia”) ripercorre questo lungo cammino rosa che, dall’antica Roma ad oggi, ha fatto tanta strada.
Ma non abbastanza. Un cammino spesso contraddistinto da rinunce personali, familiari, dolorose e psicologiche, necessarie per tenere il passo con i colleghi, che in tanto sono indispensabili in quanto consentite. E qui sta la tragedia. Da commemorare.
Un avvocato è un avvocato. Tutto l’anno. Anche l’8 marzo.