Nelle ultime settimane, sembra tornata in voga un’espressione usatissima qualche anno fa, ai tempi di Mani Pulite, secondo cui la giustizia italiana sarebbe una giustizia “a orologeria”.
Ha riesumato l’antico modo di dire Matteo Salvini dopo l’avviso di garanzia al Presidente della Regione Lombarda Attilio Fontana; e ancora alla stessa immagine si è fatto ricorso, all’inizio del 2021, dopo l’arresto del segretario dell’UdC, Lorenzo Cesa, a seguito di un’indagine della Procura di Reggio Calabria tanto che un’intervista de Il Giornale al suo procuratore Capo Nicola Gratteri del 25 gennaio iniziava con la domanda esplicita: “Procuratore Gratteri, la sua inchiesta su ndrangheta e politica esplode nel mezzo di una crisi di governo e alla vigilia di nuove elezioni in Calabria. Come si fa a non parlare di giustizia a orologeria?”.
Se si scorrono le cronache giudiziarie è agevole notare che si tratta di un’espressione piuttosto ricorrente, tanto da avere perso ormai buona parte della sua carica immaginifica iniziale ed avere il senso di un modo di dire di uso comune.
Ma questo significa dunque che effettivamente in Italia la giustizia funziona a orologeria?
Il significato dell’espressione è evidente: l’immagine evoca magistrati che calcolano i tempi dei loro atti di indagine o processuali per arrecare il maggior danno possibile ai propri indagati o imputati: un uso distorto e criminale della delicatissima funzione pubblica assegnata a giudici e Pubblici Ministeri.
Meno facile è rispondere alla domanda se ciò sia vero o no.
Un buon punto di partenza è evidenziare che l’espressione è usata esclusivamente per le indagini e i processi penali in cui sono coinvolti personaggi politici: non si è mai sentito nessuno utilizzare questa immagine per commentare un contenzioso civile di carattere ereditario o un arresto per omicidio commesso in un contesto mafioso, tanto per citare due esempi diversissimi tra loro.
Solo nei casi di indagini e processi penali che riguardano personaggi politici dunque, compare questa strana immagine del magistrato con il timer, come un bombarolo d’altri tempi pronto a far scattare un ordigno.
Se l’accostamento tra i paludati giudici in toga e i terroristi vi sembra forte, sappiate che è stato proprio un politico a parlare in questo modo: fu Bettino Craxi, che poco dopo l’esplodere del terremoto politico-giudiziario che dall’arresto di Mario Chiesa giunse a travolgere il quarantennale assetto politico della nostra politica, non solo protestò per la “giustizia a orologeria politica”, ma paragonò le iniziative giudiziarie intraprese dai magistrati agli attentati con le bombe che tanta parte hanno avuto nella triste storia d’Italia, affermando: “temo che ci saranno altre bombe, dopo quella in via Fauro. Perché? Perché oltre a una giustizia a orologeria politica, in Italia esistono anche le bombe a orologeria politica. Basta riandare indietro nel tempo. Negli ultimi trenta anni siamo vissuti in Italia, no? Bene, in questi trent’anni sono esplose bombe di cui non s’è mai saputo né chi le ha messe né chi erano i mandanti” (Repubblica, 22 maggio 1993, pag. 4).
E’ interessante notare che chi ha partorito questa immagine dunque ha maliziosamente accostato le indagini contro i politici dell’epoca alle stragi occulte che hanno insanguinato la storia d’Italia: nell’uno e nell’altro caso si interveniva con atti violenti in determinati momenti per destabilizzare la vita politica.
L’idea della giustizia a orologeria nasce dunque dalla convinzione che le indagini di Mani Pulite fossero manovrate da una sorta di regia occulta che sceglieva tempi e bersagli per la realizzazione di un disegno inconfessabile.
Purtroppo o per fortuna, la storia e le aule dei Tribunali hanno dimostrato che dietro il terremoto giudiziario passato alla storia con il nome di Mani Pulite non vi erano regie occulte ma una molto più banale degenerazione corruttiva della politica a tutti i livelli.
L’infelice accostamento tra chi ha scoperto e portato nelle aule i responsabili dei reati commessi e chi ha compiuto stragi e attentati può dunque essere archiviato come uno dei tanti tentativi di spostare l’attenzione dal responsabile d del reato al “responsabile” di averlo scoperto, vizio inveterato dalle nostre parti.
Ma lasciamo perdere questi risalenti paragoni, davvero improponibili, e concentriamoci sulla attuale coincidenza tra giustizia a orologeria e indagini politiche, da cui si può trarre una prima, importante conclusione: non tutta la giustizia, secondo i propalatori di questa teoria, sarebbe “a orologeria” ma solo una piccola, per quanto importante, fetta della stessa, quella chiamata ad accertare eventuali reati commessi da esponenti politici.
Conseguentemente, non tutti i magistrati attuerebbero questo modo distorto di esercitare la propria professione, ma solo quelli addetti alla specifica tematica dei delitti disciplinati dagli articolo 314 a 328 del codice penale, tecnicamente noti come delitti contro la Pubblica Amministrazione.
La ricostruzione sembra però implausibile.
Non si riesce a capire la ragione che porterebbe i magistrati di tutti i distretti della penisola ad una specie di accecamento e perdita della ragione profonda della loro azione in presenza di questo tipo di reati, come se vi fosse una sorta di ostilità permanente verso la categoria dei politici in quanto tale.
Non può essere la bramosia di visibilità mediatica il movente, perché altrimenti si verificherebbe lo stesso fenomeno di accanimento nei confronti di tutte le categorie mediaticamente appetibili.
Eppure nessuno ha mai accusato i magistrati di muoversi a orologeria nei confronti di attori, sportivi o altre categorie mediamente altrettanto appetibili dei politici.
Suona forse più verosimile immaginare che sia solo una parte della magistratura a perseguire fini politici, magari per contiguità con una parte politica sì spingersi a cercare di danneggiare gli esponenti della parte politica avversa, ma anche questa suggestione non regge alla prova dei fatti.
Se fosse vero, sarebbe infatti difficile stabilire quale sia la parte politica presa di mira, perché dopo Craxi si sono espressi negli stessi termini esponenti di tutti i partiti, da quelli tradizionali e oggi scomparsi a quelli che ne hanno preso il posto, come Berlusconi e Bossi, fino a quelli attuali: oltre a Salvini, ha parlato di giustizia a orologeria di recente anche Matteo Renzi quando un’indagine ha lambito i suoi familiari, provocando una piccata risposta dell’Associazione Nazionale Magistrati (si era nel 2019).
Anzi, quello che gli accusatori dei “magistrati orologiai” hanno in comune è proprio l’uso dell’espressione giustizia a orologeria solo quando è la loro parte politica ad essere oggetto di attenzioni giudiziarie ritenute indebite, mentre se le indagini riguardano gli altri tutto rientra nella fisiologica ricerca degli illeciti penali che è propria dell’attività dei magistrati.
Così, se si era parlato in ambiente Movimento 5 stelle di giustizia a orologeria quando si era saputo dell’indagine sui collaboratori del Sindaco di Roma Virginia Raggi (cfr. La Stampa, 22 maggio 2016), quando, più di recente, Salvini ha usato la stessa espressione per bollare l’indagine contro il Presidente Fontana, si è sentito dare da Di Battista, del medesimo Movimento 5 stelle, nientemeno che del “cazzaro” (Il Fatto Quotidiano, 25 luglio 2020).
A questo punto appare evidente che a denunciare questa presunta giustizia a orologeria non è “la politica” ma esclusivamente i politici indagati o i loro compagni di partito, il che rende le accuse quantomeno sospette di parzialità: è come se per contestare un cartellino giallo estratto dall’arbitro un giocatore, anziché ribattere di non avere compiuto alcun fallo e magari invitare il direttore di gara a rivedere l’azione al VAR, accusasse il suo accusatore di avere fischiato in un determinato momento della partita per favorire la squadra avversaria.
Non si tratta dunque, come potrebbe sembrare in apparenza, di uno scontro tra politica e magistratura, ma di attacchi dei politici via via attinti da indagini e processi nei confronti dei magistrati che li hanno indagati o processati.
Altra peculiarità che rende anomala l’accusa dei magistrati di muoversi a orologeria è che nessuno dei soggetti che usano questo espediente retorico sembra porre l’attenzione al merito delle accuse, preferendo tutti concentrarsi sui tempi.
Tanto che viene da chiedersi: se taluno si è macchiato del reato di corruzione, il giorno in cui questo reato viene alla luce è davvero importante più del fatto di reato? Spostare l’attenzione, per chi è accusato di gravi reati, dal “se (il reato è stato commesso)” al “quando(il reato è stato scoperto)” rischia di penalizzare lo stesso indagato, che potrebbe dare l’idea di chi, non avendo argomenti per difendersi nel merito, non può che ricorrere alla suggestiva e sempre fertile idea italica del complotto.
Va inoltre rilevato che un’accusa così pesante abbisognerebbe di argomentazioni a sostegno, se non di vere e proprie prove, mentre pare che la mera coincidenza tra l’atto giudiziario ed un determinato momento politico bastasse a dimostrare la mala fede del magistrato, che avrebbe atteso di scoccare la propria freccia nel momento in cui poteva arrecare maggior danno al politico.
Trattasi di ricostruzione azzardata, soprattutto laddove qualcuno faccia caso al fatto che non esiste nemmeno un caso in cui sia stato dimostrato che un atto giudiziario sia stato effettivamente motivato, nei modi e nei tempi, dalla volontà di fare danno al politico e non dalla ricerca di giustizia.
Rimangono le presunte coincidenze di tempi, ma una coincidenza non è una prova, e le spiegazioni possono essere molto più banali di quelle della teoria del complotto.
Basta pensare che nella vita di un politico pressocché ogni momento è importante: c’è sempre un’elezione dietro l’angolo, o un evento di rilievo da compiere o appena compiuto, sicché, in definitiva, il fatto che un politico sia stato arrestato o indagato in prossimità (di giorni, settimane o anche mesi) di un evento politico o di una chiamata elettorale, di per sé, nulla prova.
Anni fa è stato scritto un articolo di stampa che intendeva dare la prova definitiva dell’esistenza di una giustizia a orologeria nei confronti di Silvio Berlusconi, mettendo a confronto avvisi di garanzia e fissazioni di udienze e momenti importanti della vita del politico(Il Giornale, 23 gennaio 2014: “Berlusconi, venti anni di giustizia a orologeria”): scorrendo l’articolo tuttavia si ricava non la prova di una tempistica studiata a tavolino ma semplicemente dell’inevitabile incrociarsi di due agende – quella politica e quella giudiziaria – particolarmente affollate di appuntamenti e destinate dunque continuamente a sovrapporsi.
Se poi si considera che nell’articolo le presunte coincidenze temporali sono affermate sia in relazione ad aventi distanti poche ore che molti mesi, è evidente che il “valore probatorio” dell’argomento si scolora notevolmente.
E questo al di là, ovviamente, del merito delle accuse o della fondatezza delle stesse, argomento che esula dal nostro discorso.
Peraltro, l’idea che si possano controllare con esattezza i tempi dell’attività giudiziaria è alquanto disancorata dalla realtà dei processi e delle indagini del nostro paese.
Essa trascura infatti che il Pubblico Ministero, il “grande accusatore” accusato a sua volta di muovere a suo piacimento le lancette dell’orologio, non è padrone della tempistica della quasi totalità degli atti che compie e di fatto della totalità di quelli che hanno un’eco pubblica.
Ogni volta che un atto di indagine lede diritti costituzionalmente garantiti dell’indagato, c’è bisogno infatti dell’autorizzazione di un Giudice che ha il precipuo compito di verificare la correttezza delle indagini preliminari, non potendovi essere ancora il difensore poiché si tratta di atti a sorpresa (il giudice si chiama appunto GIP, giudice delle indagini preliminari).
Pertanto, se vuole arrestare un politico, il Pubblico Ministero dovrà scrivere un atto ben motivato (ben motivato vuol dire che spesso si tratta di centinaia di pagine) che si chiama richiesta di misura cautelare e depositarlo al GIP, che dopo averlo letto e consultato il fascicolo delle indagini, dovrà a sua volta scrivere perché accoglie o non accoglie la richiesta.
Per questo procedimento occorrono settimane, a volte mesi se si tratta di cose complesse (e spesso i procedimenti contro i politici lo sono, per la natura tecnica dei reati e per la delicatezza dei fatti: nessun magistrato, PM o GIP, può permettersi di tirar via in fretta e furia un atto quando sa che verrà vivisezionato, giustamente, da stampa, pubblico e da tutte le forze politiche coinvolte o meno.
In questo contesto, è davvero arduo ipotizzare che un Pubblico Ministero abbia calcolato i tempi per scoccare la freccia nel momento esatto in cui danneggia l’indagato: parlare di arresti ad orologeria vuol dire enunciare una contraddizione in termini.
Ancora più bizzarro è poi pensare che il Pubblico Ministero riesca a condizionare i tempi degli altri per il suo presunto interesse a colpire il politico nel momento prescelto: dal completamento delle indagini della Polizia Giudiziaria, ai tempi di redazione e deposito dell’informativa da parte ei medesimi negli uffici della Procura (prima della sua richiesta di misura cautelare), ai tempi di redazione dell’ordinanza del GIP nonché gli ulteriori tempi di deposito, fotocopiatura di migliaia di pagine e notificazione ai suoi molteplici destinatari.
Un “arresto a orologeria” presupporrebbe una squadra enorme di funzionari pubblici, magistrati e appartenenti alle forze dell’ordine pronta a marciare all’unisono agli ordini del magistrato inquirente e della sua pretesa di calibrare l’atto al momento esatto scelto per danneggiare il politico: una prospettiva, più che imbarazzante, di difficile realizzazione per chi conosce tempi e modi di azione della Pubblica Amministrazione italica.
Discorso diverso deve farsi per le informazioni di garanzia, le convocazioni per interrogatorio, gli atti insomma che il Pubblico Ministero può compiere senza autorizzazione del GIP: qui si potrebbe ipotizzare in astratto una scelta dolosa dei tempi dell’atto.
Ma in concreto, significa trascurare che l’obiettivo imprescindibile di ogni Pubblico Ministero è verificare la fondatezza dell’ipotesi accusatoria su cui è chiamato a svolgere indagini.
Per raggiungere questo obiettivo c’è bisogno di indagini efficaci, e nessuna indagine è davvero tale se è svolta pubblicamente e sotto gli occhi dei riflettori: per questo motivo, di nulla è più geloso il magistrato inquirente che della segretezza dei propri atti, soprattutto nella prima fase delle indagini preliminari (è facile immaginare quanto siano utili le intercettazioni di un politico a cui è appena stato detto, con strepito e articoli di stampa, che è sottoposto a indagini…).
E’ dunque evidente che, a meno di distorsioni patologiche che per carità possono esservi e vi sono sicuramente state in qualche caso, l’eventuale obiettivo di breve respiro di colpire mediaticamente il politico attraverso la pubblicazione dell’esistenza di un’indagine a suo carico è destinato, nel medio e lungo periodo, a ritorcersi contro lo stesso inquirente, che vedrà con alta probabilità vanificato il successo dell’indagine.
Prudenza e buon senso albergano nella mente dei magistrati inquirenti, forse più di quanto (comprensibilmente) sembri a chi è destinatario delle indagini.
Il sistema giudiziario è inoltre congegnato in modo da evitare che il potere di condizionamento della vita e della libertà altrui siano concentrate nelle mani di un solo organo, ciò che esclude o dovrebbe escludere in radice anche la possibilità di avere in mano, in esclusiva, i tempi delle indagini e dei processi.