Riformare la pubblica amministrazione si sta rivelando molto più complicato di quanto pensasse il Governo in carica, all’indomani del proprio insediamento. E così, in un batter d’occhio, si è passati dalla firma in pompa magna del Patto per l’innovazione del lavoro pubblico e la coesione sociale avvenuta nel marzo scorso con i sindacati – suggellando così una luna di miele con le parti sociali un po’ strapazzate nella precedente esperienza governativa di Brunetta, appagate da cotanta considerazione – ai comunicati dei giorni scorsi dei medesimi sindacati “firmatari”, che hanno dichiarato di non volersi più sedere ad alcun tavolo, incontro, convegno con il ministro, fino a quando non saranno emanati gli atti di indirizzo per i rinnovi dei contratti nazionali scaduti nel 2018 e fino a che non firmeranno contratti nazionali che non prevedano risorse finanziarie per i nuovi inquadramenti professionali. Nihil sub sole novum….
Poco male, verrebbe da dire, dato che il PNRR prevede il piano di riforma della P.A. come catalizzatore del cambiamento e fra gli acronomi che lo compongono contiene anche la “resilienza“, cioè la capacità di resistere agli urti (materiali o della vita), senza scalfirsi. Ergo: il piano non si scalfisce a causa di piccole “rotture”, ma va avanti. Si spera. E che tra “sindacati” e “rotture” vi sia assonanza se non cacofonica, almeno di senso generale…. novum non est!
E’ di questi giorni una acuta analisi sul Corriere della Sera del prof. Sabino Cassese (che non finisce di stupire per la lucidità), che individua alcuni punti chiave per evitare di continuare a sbagliare o “raffazzonare” le riforme della pubblica amministrazione. E allora bisogna calcolare bene i fabbisogni di personale, individuare con precisione le figure professionali di cui la P.A. (tutta, nel suo complesso, dato che il denaro delle retribuzioni è sempre e solo quello dei contribuenti), ha bisogno, senza fare affidamento “sugli organici (spesso gonfiati) oppure sulle richieste sindacali, invece che sui carichi di lavoro“.
Necessario, quindi, colmare le carenze di organico – laddove vi sono – con la ripresa massiccia di procedure concorsuali rapide (cosa che nelle magistrature non è mai), severe, selettive, ma prima di assumere la P.A. deve sapere con precisione di quali profili professionali ha necessità (qualis est) e dove ne ha necessità (ubi est).
Il prof. Cassese tocca poi un altro “nervo scoperto” dell’accesso alla pubblica amministrazione, che occorre riformare (altrimenti si parla di niente): occorre con tutte le forze “evitare che nei ranghi pubblici entrino gli amici degli amici”, i parenti, i “trombati”, gli omologhi. Natus est in mundum, si dice qui nell’antica Roma!
Cosa serve allora alla pubblica amministrazione per essere davvero resiliente, efficiente, competitiva? Non è difficile fissare alcuni principi chiari e farvi ruotare intorno una semplice e lineare riforma, basta avere il coraggio di imboccarne la strada e proseguire diritti. Solum adiuvat!
In primo luogo, è necessario che ogni dipendente pubblico, a qualsiasi livello, svolga il lavoro per cui è stato assunto. Basta con il secondo, terzo, quarto lavoro o le aspettative e i fuori ruolo per svolgere tutt’altro, mantenendo in vita per cinque, dieci anni o per sempre il proprio posto, che in tal modo è sottratto ad altri. Si pensi all’intra moenia o extra moenia in sanità, ai professori universitari a tempo limitato o a tempo pieno o a nessun tempo, si pensi ai magistrati di ogni ordine e grado o agli avvocati dello stato. Chi vuole fare altro, deve uscire senza paracadute e lasciare il posto per forze motivate e nuove.
Tale previsione va, però, accompagnata da misure retributive coerenti con il mercato: se non si corrisponde il giusto prezzo non si può pensare di reperire o trattenere i migliori. Non si può pensare di rendere competitiva la più grande “azienda” italiana, la P.A., senza tenersi strette le eccellenze o senza reperirle ex novo. E l’eccellenza va pagata.
In secondo luogo, sarebbe necessario, e non semplicemente auspicabile, tornare al rapporto di lavoro di diritto pubblico – come in parte è rimasto – per l’intero corpus dei dipendenti pubblici. La privatizzazione di parte del pubblico impiego, frutto di scelte poco ponderate quanto agli effetti, ha prodotto gran parte dei mali che, lungo i decenni, ancora oggi scontiamo.
Da un lato l’eccessiva sindacalizzazione ha introdotto nella P.A. la “omogeneizzazione” delle professionalità, della premialità, delle carriere, delle retribuzioni, con il risultato di accontentare tutti, specie i lavoratori meno qualificati, ma contemporaneamente livellando tutti i dipendenti, demotivando le eccellenze e elidendone l’appartenenza.
Dall’altro lato si è commesso l’errore di devolvere alla giurisdizione del giudice ordinario la cognizione delle controversie fra dipendenti e datore di lavoro, che utilizza denaro pubblico per corrispondere le retribuzioni, al pari di ciò che avviene per parte di pubblici dipendenti rimasti nell’alveo della giurisdizione amministrativa.
Il giudice ordinario, infatti, troppo spesso dimostra di non aver chiare le logiche della gestione pubblica del rapporto di lavoro, del tutto differenti da quelle poste in essere dall’imprenditore. Infine, sarebbe necessario attuare appieno ed una volta per tutte l’istituto della mobilità all’interno di tutta la pubblica amministrazione, intesa come comparto unico, a parità di inquadramento e di professionalità.
Questa sarebbe la vera riforma: una strategia di semplificazione ordinamentale che consentirebbe agli italiani di pagare con il proprio denaro professionisti della P.A., avvocati, magistrati, medici, ingegneri, architetti, in grado di rendere efficiente e competitivo il Paese dei cui servizi (difese, salute, infrastrutture, decisioni, ecc.) potrebbero beneficiarne in totale sicurezza.
Sarebbe denaro ben speso.
Optimum Statum, magnae virtutes.