Un nuovo sistema in grado di rispondere in maniera adeguata alle delicate condizioni del Paese e al contesto europeo e internazionale. O ancora, la chiave di volta per porre fine a tutta una serie di squilibri sociali che hanno rallentato la crescita economica; l’architrave della politica di bilancio o, infine, il meglio: la madre di tutte le riforme.
Una hype pazzesca.
La tanto annunciata riforma fiscale ha avuto un carico di aspettative che neanche la Nazionale di Mancini alle soglie dell’Europeo dopo il clamoroso Mondiale mancato del 2018. Se si aggiunge che il sistema fiscale italiano attende di essere integralmente ripensato da mezzo secolo, si trova una seconda analogia con il trofeo continentale che mancava dal palmarèsdegli Azzurri da altrettanto tempo.
Ma il gioco finisce qui, perché se la cavalcata verso Wembley dei ragazzi del Mancio è stata a dir poco un successo, il testo presentato dalle Commissioni Finanze di Camera e Senato, che sarà l’ossatura della riforma sul quale il Governo darà le linee guida della legge delega da portare in Parlamento entro fine luglio, appare un qualcosa di fiacco e sbiadito che odora di fallimento.
Di quanto discusso nei mesi scorsi è rimasta poca traccia se non i principi generali, impossibili da non condividere da forze politiche e pubblica opinione: semplificazione generale del sistema e riduzione secca della pressione fiscale sui lavoratori.
Analizzando il canovaccio buttato giù dalle Commissioni si apprende la volontà di ridurre le aliquote Irpef, in particolar modo nel terzo scaglione, il più bersagliato e, in generale, eliminare le brusche discontinuità che caratterizzano il prelievo. Una volontà che deve però accompagnarsi con le risorse: considerato che l’Irpef pesa circa 11 punti di PIL e dovrebbe arrivare a controvalore economico di oltre 200 miliardi di euro nel 2021, ogni rimodulazione al ribasso vale miliardi (almeno 10 per ottenere qualche effetto) e senza coperture la riduzione del prelievo diventa assai difficile.
Un altro punto messo all’attenzione del Governo riguarda l’accorpamento tra Ires e Irap, con l’addio all’imposta regionale per le imprese. Ardua (impresa) anche questa: alleggerire il carico per le sole PMI costerebbe 3 miliardi di euro e si allargasse la platea ad aziende più strutturate il conto aumenterebbe di almeno 10 miliardi di euro in più.
Terreno di scontro tra i partiti è stato poi l’allargamento del regime forfettario per le partite IVA rispetto agli attuali 65mila euro. Attualmente il provvedimento ha un costo di 1,5 miliardi di euro che l’ampliamento dei beneficiari farebbe rapidamente raddoppiare; senza considerare l’antico tema di equità tra autonomi e lavoratori dipendenti che creerebbe ulteriori polemiche. La rimodulazione delle aliquote IVA, antico desiderata, sarà un altro ambito inevitabilmente tradito. L’imposta, è noto, è la più evasa anche – ma non solo – a causa del suo impianto e ha un peso specifico sul tax gap che, mettendo insieme IVA, Irpef, Irap e Ires supera gli 80 miliardi di euro. Impensabile metterci mano senza causare scossoni e dure ricadute in una fase in cui occorre ridare smalto ai consumi privati e certezze alle imprese.
Non occorre andare oltre, basta sorvolare i macro punti del testo per superare, nella peggiore delle ipotesi, 20 miliardi di euro di risorse necessarie: quasi una Finanziaria, troppo per una sola riforma.
Il tema delle risorse è chiaramente l’elemento che determina l’ampiezza di una riforma. Pur essendo stato un argomento assente dalle discussioni precedenti è entrato in campo ora con il titolare del Mef, Daniele Franco, che ha chiarito l’entità dello stanziamento, a legislazione vigente, in 3 miliardi di euro e ha escluso – giustamente – ogni operazione in deficit considerato un debito pubblico che toccherà di 2.700 miliardi di euro nel 2021 e un’evasione fiscale che supera tranquillamente i 100 miliardi annui.
La generica propensione “anti tasse” indicata dalle forze politiche; la necessità di accontentare tutte le componenti della maggioranza e quindi nessuna; l’assenza di un piano strutturale per il recupero delle risorse e la mancata individuazione di strumenti per un reale contrasto all’evasione fiscale sono gli altri elementi che rendono legittimo pensare che i successivi passaggi, tra Governo, Parlamento e possibile “commissione di esperti” non rivoluzioneranno il fisco italiano.
Resiste un sistema che tassa ancora troppo il lavoro rispetto alle rendite; non riesce a uscire dalla logica impositiva basata sull’individuo e non sulla sua “comunità” d’appartenenza e non ha capacità di spostare, almeno in parte, il baricentro del prelievo “dalle persone alle cose” per rilanciare la crescita.
Insomma, forse ci voleva davvero un fisico bestiale per un pensare a un fisco anche solo normale ma, a quanto pare, i contribuenti lo continueranno solo a sognare.