Il divario di stipendio e di spesa tra uomo e donna è un tema che si sta facendo sempre più cruciale e verso il quale si inizia a destinare la dovuta attenzione.
È di questi giorni la notizia della prossima introduzione in manovra del calmieramento della cosiddetta tampon tax, attraverso la riduzione dell’aliquota IVA sugli assorbenti.
Alla luce della forte incidenza di questo divario l’O.N.F. – Osservatorio Nazionale Federconsumatori ha condotto uno studio che mette in rapporto i redditi e la spesa di “genere”. Come è facile immaginare gli esiti sono tutti a svantaggio delle donne: mentre guadagnano mediamente il 10% in meno rispetto agli uomini, spendono di più per acquistare i prodotti a loro dedicati.
Su 12 comparti di beni analizzati, ben 7 risultano più cari per il genere femminile. Guardando invece alle percentuali di divario, emerge come siano i prodotti destinati agli uomini, in molti casi, i più cari. Si tratta solo di operazioni di marketing che vogliono differenziare sempre più per genere (e ora anche per età) alcuni prodotti? Nel 90% dei casi sì. Ma è indubbio che il condizionamento culturale indotto dalla diffusione e dalla massiccia promozione di tali prodotti è forte e spinge molti all’acquisto di prodotti specifici, sempre più personalizzati.
Il consiglio di Federconsumatori è sempre quello di valutare un prodotto in base alla qualità, al prezzo e alla corrispondenza rispetto alle proprie esigenze, al di là di come sia “caratterizzato”. Adottando questo accorgimento vi renderete conto che il portafoglio ne beneficerà. Ciò non toglie che i dati illustrati mostrano la necessità e l’urgenza di intervenire concretamente per contrastare il gender pay gap e la disoccupazione femminile.
Un timido passo in avanti, in tal senso, finalizzato a ridurre il divario retributivo di genereè rappresentato dalla proposta di legge, approvata alla Camera lo scorso 13 ottobre, che intende favorire la parità salariale tra uomini e donne: l’atto è ora passato al Senato per l’approvazione definitiva (in allegato è reperibile l’analisi).
Di seguito la ricerca completa su gender pay gap e gender tax.
Gender Pay Gap
Secondo le analisi più recenti metà delle donne lavorano part time: spesso questa formula è imposta dalla necessità di badare ai familiari, dalla mancanza di servizi, o dall’azienda stessa. Secondo i dati Istat il 19,5% delle donne occupate lavora in part time involontario. Oltre un decennio fa, prima dello scoppio della crisi economica, quel tetto era fermo al 10%.
Guardando alle differenze tra il settore pubblico e quello provato emerge come il gender gap del pubblico si attesta attorno al 4,4% mentre quello del privato sale al 17,9%: in nessun altro Paese europeo la distanza è così evidente.
Va ancora peggio se si guarda al reddito complessivo annuo di uomini e donne, ovvero il divario complessivo (overall earnings gap): in Italia, infatti, le donne che lavorano sono ancora poche, i dati Istat rivelano che nella fascia fra i 15 e i 64 anni lavora solo il 50,1 % delle donne, una su due, mentre per gli uomini la percentuale arriva al 68,7%. Al Sud risultano occupate 33 donne su 100, 64 al Nord e 57 al Centro. Una situazione nettamente peggiorata alla luce della pandemia, nel corso della quale tale divario è aumentato.
Guardando all’analisi sui redditi nei diversi settori emerge come in quasi tutti la differenza è a svantaggio del genere femminile. La differenza più marcata si registra, tra i settori presi in esame, in quello dei servizi finanziari, dove il divario raggiunge il 20%. Solo nel comparto dell’edilizia e delle utilities le donne hanno una retribuzione maggiore rispetto agli uomini.
Nelle ultime rilevazioni (relative al 2019) la disparità di genere pesa in media in busta paga per un buon 10% a favore degli uomini, che guadagnano in media circa 3.009 euro l’anno più delle donne. Guardando al divario dello stipendio uomo/donna per inquadramento il livello più elevato si raggiunge per gli impiegati (-9,54%).
Gender Tax
Alcuni le chiamano pink tax e blue tax, di fatto questi nomi servono a definire quel fenomeno per cui alcuni prodotti dedicati espressamente alle consumatrici donne costerebbero di più rispetto agli equivalenti destinati agli uomini, e viceversa. Sono molti gli esempi che rilevano l’insensato e ingiusto divario di prezzo tra prodotti che hanno lo stesso costo di produzione e distribuzione.
Si parla di deodoranti, prodotti per il trattamento del viso, che presentano un costo maggiore nelle loro varianti “femminili” (più del 50% di differenza), o ancora delle scarpe sportive e prodotti per la cura del corpo, che hanno un costo maggiore per gli uomini.
Un’altra categoria fortemente colpita da questo fenomeno è quella dei profumi: quelli da donna costano il 29% in più rispetto a quelli da uomo, a parità di quantità e marca.
C’è poi da considerare la cosiddetta Tampon Tax, l’aliquota Iva sugli assorbenti che è pari a quella standard del 22% (applicata, per esempio, anche ai beni di lusso) e che rappresenta un costo fisso per moltissime donne. Proprio in tal senso si prospetta l’introduzione nella Legge di Bilancio di una riduzione dell’aliquota IVA al 10%.
Alcuni studiosi hanno ipotizzato che in realtà la Pink Tax non sia così diffusa come si è ritenuto fino ad oggi, ma che piuttosto sia corretto parlare di ‘Pink Budget’, ovvero l’esistenza di un numero decisamente maggiore di oggetti specificatamente femminili rispetto a quelli dalle spiccate caratteristiche maschili. Quindi il problema non risiederebbe unicamente nel prezzo in sé, ma nel condizionamento culturale che porta le donne a dover comprare in volumi maggiori e oggetti ben specifici, incidendo maggiormente nelle tasche delle consumatrici. Un motivo in più per non lasciarsi condizionare.
*Fonte: comunicato stampa Federconsumatori