Uno stato di WhatsApp, se offensivo, può essere ritenuto diffamatorio, perché può essere visionato da tutti i contatti della rubrica, al pari di un’infamità schiamazzata in una pubblica piazza. A queste conclusioni è giunta la Corte di Cassazione qualche mese fa (Cass. pen., Sez. V, Sent. n. 33219/2021), decidendo le sorti di un uomo che, sul suo “stato” di WhatsApp, aveva pubblicato contenuti lesivi alla reputazione di una donna.
Corroso dal livore, infatti, l’uomo aveva ben pensato di comunicare a tutti il suo disprezzo nei confronti di quella ex amica e – ingegnosamente a parere suo – non aveva pubblicato un post (cosa che, inevitabilmente, avrebbe condotto alla condanna per diffamazione, cfr. Cass. pen., Sez. I, Sent. n. 16712/2014), ma aveva inserito, nel suo stato di WhatsApp, parole offensive alla reputazione e al decoro di quella persona, credendo di rimanere impunito.
Si sbagliava di grosso.
Non appena visualizzate quelle parole sullo “stato”, e compreso subito di esserne la destinataria, la donna lo aveva subito denunciato, iniziativa che ha condotto alla condanna dell’uomo tanto in primo quanto in secondo grado, proprio per diffamazione.
Non pago del corso della giurisprudenza, il maldestro scrittore si rivolgeva alla Cassazione, asserendo che fosse impossibile provare che quel messaggio fosse rivolto proprio alla parte offesa. Ancora, a sostegno della già traballante tesi difensiva, il fatto che – a dire dell’imputato – solo la donna poteva vedere il suo stato, poiché tramite una specifica funzione della celebre app di messaggistica, l’uomo aveva impedito a tutti i suoi contatti di visualizzare (e leggere) il suo stato e, di conseguenza, non poteva applicarsi il reato di diffamazione.
Proprio sul secondo motivo di difesa, i togati del Palazzaccio hanno respinto l’eccezione, perché – secondo gli Ermellini – se tale fosse stata l’intenzione dell’imputato, sarebbe stato sufficiente mandare un messaggio individuale piuttosto che tutta quella pantomima. Proprio perché, dunque, quei contenuti potevano essere visti da tutti i contatti presenti nella rubrica del telefono dell’uomo, ecco che scatta la diffamazione, reato che punisce chi, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione.
Relativamente, invece, al fatto che quello scritto si riferisse alla parte lesa o al quisque de populo, per la Suprema non ci sono stati dubbi al riguardo, avendo già accertato nei precedenti giudizi che l’imputato raccontasse di una persona ben individuata.
Del resto, che WhatsApp rappresenti una “piazza” a tutti gli effetti è pacifico da un po’ di tempo. Un paio di anni fa la Cassazione ha affermato che è configurabile il delitto di diffamazione (e non la semplice ingiuria aggravata) nel caso in cui le offese siano scritte in una chat di gruppo (cfr. Cass. pen., Sez. V, Sent. n. 7904/2019). Meglio tenerlo a mente la prossima volta che siamo tentati di rispondere – in malo modo – in uno dei mille gruppi in cui siamo stati a forza invitati.