Come tutti gli anniversari importanti, quello dei cinquant’anni dalla morte di Dino Buzzati ha seguito il copione nostrano per cui si beatifica anche chi, pur ampiamente meritorio già in vita, è tuttavia sempre stato guardato con occhio un po’ snob, nonostante e forse soprattutto a causa del successo ottenuto.
Figuriamoci. Buzzati, per alcuni, era preistorico già negli anni ’60, col suo attaccamento giudicato sentimentale e obsoleto al mondo “di prima”, e ancor più con la sua vocazione perenne al Fantastico, che inquinava, sempre per gli stessi alcuni, anche quelle riflessioni sulla vita e la morte di cui si nutriva la sua penna, altrimenti ascrivibili (come gli avrebbe fatto comodo!) a una piega tutto sommato esistenzialista.
Nel 2022, invece, agli eredi di quegli antichi sapientoni che sanno ben fiutare dove tira il vento, portare in processione le reliquie di Buzzati piace.
E non importa che, oggi come allora, seppur in maniera opposta, della sua narrativa abbiano capito poco. Perché è facilissimo, adesso, ricordare che il Nostro è stato davvero l’ultimo ufficiale a vegliare la fortezza del Fantastico quando le sue caserme erano desolate e vuote, e prestarvi servizio non andava a nessuno (si finiva per perdere i gradi, la dentro!), ed ancora più semplice è infilarvi ora vecchi disertori ripuliti, maldestre e supponenti guardie dei bastioni che guardano verso l’Altrove. Un buon mantello (coglieranno la citazione?) sotto cui continuare a fare altro, in verità. Magari ripetere salmi ridicoli imparati Oltreoceano, reame dove la sterilizzazione dell’Immaginario procede a gonfie vele.
Un problema, tuttavia, che non riguarda tanto chi Buzzati l’ha letto davvero, e che amandolo ne ha compresa l’intima e naturale connessione con la dimensione del sogno, bensì chi giustamente – volendo studiare le radici della letteratura fantastica nazionale – corre il rischio fondato di imbattersi in una critica che butta giù affermazioni che è pietoso definire né carne né pesce, imbastita su affermazioni apodittiche e un po’ ipocrite.
Insomma: la pulsione al meraviglioso di Buzzati è infine nobilitata, perché – si sa – Buzzati è nobile. Ma non sia mai che ciò autorizzi a pensarlo anche per altri! La redenzione buzzatiana è unica e ad personam. Il resto dei peccatori è morto da troppo poco tempo, oppure non ha un blasone da intestarsi dopo opportuna manomissione. Tolkien escluso, che almeno è straniero, ed è una torta che non si finisce mai di spartire. Al limite ci si può spendere – pensosamente – su qualche vecchio attrezzo gotico, che lì il grosso del lavoro è fatto, e rigiocarsi vecchie carte come “l’interpretazione psicanalitica”, sempre chic.
Per fortuna, Buzzati lo sapeva bene, almeno noi possiamo trovare rifugio da tanta pochezza in regioni non segnate sulle carte, dove di tanto cianciare non ci si preoccupa, e di simili scempiaggini si ride a crepapelle. Altrimenti sarebbe roba da farsi venire l’orticaria.