In questi giorni ricorre il 20° anniversario dell’introduzione dell’euro, la moneta unica europea, che sostituì le valute nazionali dei Paesi aderenti nel gennaio 2002, istituito dal Trattato di Maastricht nel febbraio del 1992. Il tempo trascorso è sufficiente per tracciare un primo bilancio del funzionamento complessivo, dei costi economico-sociali e delle ricadute in termini di competitività per le nostre imprese.
L’idea di introdurre una moneta unica per le nazioni facenti parte della CEE ha un’origine antica ma solo alla fine degli anni ’70 furono compiuti i primi passi in tale direzione, con la nascita dello SME, il sistema monetario europeo, il cosiddetto “serpentone monetario” che istituiva un meccanismo di cambi fissi più o meno flessibili in una banda di oscillazione prefissata, a seconda della forza della valuta nazionale sui mercati, per preparare la strada all’ECU prima e all’Euro poi. In Italia si aprì allora un acceso dibattito tra le forze politiche sulla convenienza e l’opportunità dell’adesione e non furono poche le voci contrarie che si levarono dall’ambiente accademico e che ebbero tra i più fieri oppositori l’economista Federico Caffè, maestro di Mario Draghi, che sarebbe scomparso di lì a qualche anno e i cui studi appaiono, a rileggerli oggi, davvero incredibilmente profetici.
Anche all’interno della maggioranza di governo la discussione fu feroce ma nel 1979 prevalse la posizione favorevole sostenuta dal Presidente del Consiglio, Giulio Andreotti, mentre il PCI, che stava per tornare all’opposizione dopo il triennio di appoggio esterno nell’ambito degli esecutivi di “solidarietà nazionale”, votò contro. Le obiezioni si concentrarono sul possibile ingabbiamento della lira, che da diversi anni si destreggiava sui mercati con soventi svalutazioni per accrescere la competitività internazionale e l’attrattiva dei nostri prodotti. Tuttavia, l’Italia fu tra i Paesi che beneficiò di un maggiore margine di oscillazione dei cambi per non penalizzare eccessivamente la nostra moneta sui mercati finanziari.
La seconda tappa fondamentale verso l’Euro fu nel 1981 la famigerata separazione tra Bankitalia e Tesoro, di cui abbiamo già parlato in altre occasioni, decisa incredibilmente da una semplice lettera dell’allora ministro Andreatta, al governatore Carlo Azeglio Ciampi, senza passare nemmeno per un’informativa parlamentare. Il PSI, specialmente con Rino Formica, allora ministro delle Finanze, chiese spiegazioni e protestò vivacemente ma ormai la decisione era stata presa e fu una decisione carica di nefaste conseguenze per la finanza pubblica. Infatti, fino ad allora la Banca d’Italia aveva sempre garantito il suo intervento di acquisto dei titoli di Stato rimasti invenduti sui mercati, per monetizzare il debito e sterilizzare gli interessi, interessi che invece esplosero progressivamente facendo lievitare il debito pubblico dal 60% al 125% in un solo decennio.
Con la fine della prima Repubblica e l’avvento al potere dell’Ulivo guidato da Romano Prodi, si svolsero le frenetiche operazioni necessarie, a dire del governo, per entrare da subito nella moneta unica: si continuò sulla falsariga delle prime politiche di austerità, varate già a partire dal 1992, arrivando addirittura ad istituire “l’eurotassa”, che fu qualche anno dopo restituita per il 60%.
Nel 1997-98 le trattative si fecero febbrili, dato che l’Italia non rispettava uno dei parametri decisi a Maastricht, dove, dopo un biennio di bozze scritte e riscritte, era stato firmato il trattato istitutivo dell’Euro e del Patto di stabilità e crescita, molto più improntato alla prima che alla seconda. L’escamotage fu trovato grazie alla diplomazia di Gianni De Michelis e soprattutto di Guido Carli, che tra il 1990 e il 1992 era riuscito a far inserire la clausola della tendenziale riduzione del rapporto tra PIL e debito pubblico verso il virtuoso e teutonico 60%, oggettivamente impossibile per una Nazione che aveva un deficit annuale intorno al 10% del prodotto interno lordo. Inizialmente Prodi era intenzionato a non entrare nel gruppo di testa ma poi, dopo che Fassino, inviato a Madrid, scoprì che il governo Aznar sarebbe entrato da subito con Francia e Germania, decise per la repentina adesione italiana, dato che per un Paese fondatore sarebbe risultato perlomeno poco onorevole ammettere di non avere i requisiti finanziari per entrare da subito nel nuovo esclusivo club monetario europeo.
Pochi anni prima, nel 1990, il primo ministro britannico Margareth Thatcher, aveva ripetutamente opposto alla Camera dei Comuni i suoi famosi tre “NO, NO, NO”, all’ipotesi e all’invito di Jacques Delors, allora presidente della Commissione CEE, ad entrare nell’euro abbandonando la sterlina, la sovranità monetaria e la Banca d’Inghilterra. Nel famoso discorso di Bruges del 1988, la Lady di Ferro aveva tenuto una lectio magistralis sulle solide ragioni per le quali si opponeva strenuamente all’adesione all’euro: ragioni che anche Giuliano Amato, ripeté ogni volta che fu interpellato sulla questione, spiegando che una moneta senza Stato e con una Banca Centrale dai poteri monchi rispetto alle sue omologhe Banche nazionali per volere tedesco, avrebbe riscontrato notevoli difficoltà di funzionamento.
Analogamente, nel 1997 l’ex presidente del Consiglio Bettino Craxi, da un triennio ritiratosi ad Hammamet in seguito alle note vicende di Tangentopoli, ribadì con forza che l’’Europa e l’euro nel migliore dei casi sarebbero stati per l’Italia un limbo e nel peggiore, un vero e proprio incubo. I fatti non si sono incaricati di smentirlo.
Infatti, la crisi dei titoli subprimes del 2008, originatasi a Wall Street, si tramutò nel giro di un solo triennio, in una crisi finanziaria dei debiti sovrani, specialmente di quello italiano, tra i più esposti sui mercati ed ebbe un primo costo sociale molto alto nel biennio 2011-2013, anche a causa delle politiche di austerità molto dure prese dal governo Monti su dettatura di Bruxelles e di Berlino. Ciò aggravò una situazione economico-sociale già provata da una media salariale molto bassa fin dal 1993 e da un cambio fissato incredibilmente a 1936, 27 £ per 1 €. Il debito pubblico intanto passò, in seguito alle politiche restrittive messe in atto, dal 120 al 130% del PIL. Nel 2016 con un referendum, vietato in Italia su materie economiche e di bilancio, gli inglesi votarono per l’uscita dalla Ue, ricordandosi di seguire i moniti del loro ex primo ministro di 25 anni prima.
Oggi, a 20 anni di distanza, è sotto gli occhi di tutti gli osservatori quale delle due profezie opposte di Prodi (“con l’Euro guadagneremo un giorno di più lavorando un giorno di meno… con l’euro la Germania è di gran lunga la nazione più potente d’Europa”) e di Margareth Thatcher (“l’Euro è la più grande follia dell’era moderna, è una minaccia per la democrazia e avrà costi economici e sociali molto alti, specialmente per i Paesi più poveri. La Germania si ritroverà la sua naturale fobia dell’inflazione, mentre l’euro risulterà fatale per i Paesi più poveri perché devasterà le loro economie inefficienti”) si sia più avvicinata alla verità dei fatti, ma basterebbe ricordare ai commentatori dalla memoria molto corta e agli “eurolirici” in generale, quali fossero intorno alla metà degli anni ’80 i nostri macro indicatori economici, rapportati a quelli attuali: l’Italia aveva un Outlook finanziario internazionale massimo, pari a AAA+, un PIL che cresceva tra il 3,5 e il 4 % all’anno, un’inflazione tra il 5 e il 6% e un rapporto debito/PIL di circa l’80%.
Oggi l’Outlook è di BBB-, il PIL dopo vent’anni di crescita zero e un -9% in seguito alla pandemia si sta faticosamente rialzando ma ancora non ha raggiunto il livello del 2019 e il debito è schizzato tra il 150 e il 160%. Qualcuno, in effetti, potrebbe obiettare che i tassi di interesse sono bassi, bassissimi, anzi sotto zero e che la nostra debole lira non avrebbe potuto resistere alla globalizzazione, allora sarebbe molto facile rispondere che, come ha rivelato poco tempo fa Giulio Tremonti, il governo Kohl, nonostante conoscesse bene lo stato dei conti pubblici italiani, insistette per l’ingresso dell’Italia nel club della moneta comune, per ingabbiarne la competitività delle imprese e dei suo prodotti di eccellenza che si dovettero confrontare di punto in bianco con una moneta forte, ostacolo netto per le esportazioni.
Oggi la posta in gioco sta nella riscrittura del Patto di Stabilità, per renderlo stavolta ben più orientato verso la crescita e che vede nell’incipiente trattativa di revisione, per una volta Italia e Francia opposte alla Germania, sempre nostalgica delle politiche di austerità.
In conclusione, un rapporto del centro studi tedesco Centrum für europäische Politik ha certificato che in media ogni italiano dall’entrata in vigore dell’Euro abbia perso in un ventennio, circa 73.000 euro a testa, un francese 56.000, mentre un tedesco abbia guadagnato mediamente più o meno 23.000 €. Chissà, allora forse avevano davvero ragione coloro che erano contrari all’unificazione tedesca preludio alla trasformazione del marco in euro, come Mitterrand e soprattutto Andreotti che con una delle sua caustiche ma geniali battute disse: “Amo così tanto la Germania che ne preferirei sempre due”.
A buon intenditor poche parole, il ‘divo’ Giulio aveva già capito chi si sarebbe avvantaggiato dalla nuova moneta unica e chi ne sarebbe stato oltremodo penalizzato e forse si era già pentito di aver firmato quel Trattato a Maastricht in quel funesto 1992.