Sono trascorsi 30 anni dalla famosa indagine “Mani pulite” contro i politici corrotti. A far saltare la prima tessera del domino – lo ricordiamo tutti – fu l’arresto di Mario Chiesa (PSI) che venne ripreso nel suo ufficio al Pio Albergo Trivulzio nel momento in cui prendeva i soldi da un imprenditore cui aveva appaltato le pulizie della struttura. Il “concusso” aveva preventivamente allertato l’Autorità Giudiziaria perché installasse di nascosto delle telecamere per riprendere la consegna delle mazzette. Il resto è storia.
Da qualche anno le audiovideointercettazioni (AVI) sono tornate protagoniste perché utilizzate a mani basse dall’Autorità Giudiziaria per documentare Presunti Maltrattamenti a Scuola (PMS) negli asili nido, nelle Scuole dell’Infanzia e nella Primaria. Se le telecamere avevano sortito ottimi effetti 30 anni fa nello smascherare “mariuoli” in politica – si è pensato – otterranno i medesimi risultati nello smascherare le maestre violente a scuola. Ma non tutto è oro quel che luccica: vediamo perché.
La prima grossa differenza risiede nei tempi di intercettazione. Trenta anni fa si intercettava un singolo episodio (es. un incontro di pochi minuti) ma non si faceva la cosiddetta “pesca a strascico” per centinaia e centinaia di ore aspettando di cogliere in fallo l’indagato. In altre parole, per le indagini a scuola non esiste il contingentamento delle AVI che dipende esclusivamente dalla volontà del GIP di rinnovare 15 giorni alla volta l’autorizzazione a intercettare.
Non è certo un caso se tra le indagate vi sono anche una decina di suore, note sì per avere maniere spicce, ma di sicuro né violente, né malvagie. Altra differenza – non certo la più importante – consiste nei costi smisuratamente maggiori delle lunghissime AVI a scuola, dovuti ad affitto e assistenza delle tecnologie, impiego di personale etc). Alla suddetta pesca a strascico va poi aggiunto il fatto che il GIP – con la sua autorizzazione – aggira/supera lo Statuto dei Lavoratori (art. 4) che tutela la riservatezza dell’attività professionale della maestra vietando qualsiasi ripresa sul lavoro.
Le indagini, che ricordiamo essere condotte da inquirenti non-addetti-ai-lavori cioè personale completamente a digiuno di formazione, insegnamento, educazione e pedagogia (si veda a questo proposito l’art. 27 del CCNL Comparto Scuola per conoscere i tanti requisiti specifici di un insegnante) sono cresciute esponenzialmente, di ben 14 volte nel giro di sei anni (2014-2019) facendo registrare un aumento superiore al 100% dal 2018 al 2019. Viene pertanto da chiedersi se l’intervento dell’Autorità Giudiziaria con le telecamere nascoste abbia contribuito a ridurre o a moltiplicare il fenomeno.
La domanda è d’obbligo se poi confrontiamo la realtà italiana con i Paesi occidentali: il fenomeno dei PMS pare essere esclusivamente (e inverosimilmente) italiano. È mai possibile che le maestre violente esistano solo qui da noi? Ovviamente no, ma all’estero si seguono protocolli collaudati, meno costosi e soprattutto più adeguati. Queste prassi vietano la cortocircuitazione del preside e prevedono che sia lo schoolmaster (dirigente scolastico) a gestire questi tipi di problemi, intervenendo subito, come può, ricorrendo ai mezzi a sua disposizione (affiancamento, o sospensione cautelare, o accertamento medico d’ufficio etc) e soprattutto senza dover aspettare lunghi mesi per costose indagini.
I punti critici non sono finiti. L’intervento dell’Autorità Giudiziaria – a differenza di quello di un preside – è tutt’altro che tempestivo poiché richiede tempi lunghissimi prima di arrivare all’eventuale sospensione delle maestre. Ciò sta a significare che non vi è un pericolo reale per l’incolumità dei bimbi e la conferma giunge dal bassissimo ricorso delle Forze dell’Ordine all’arresto in flagranza di reato (1% dei casi) e soprattutto dalle pochissime lesioni fisiche spesso nemmeno certificate dai medici. Al contrario, conseguenze gravi fino al decesso si sono verificate a scuola per mera fatalità.
Queste si sono dovute all’assenza di sorveglianza (e non alla presenza) delle maestre e/o delle collaboratrici scolastiche (vedi il recente caso del bimbo precipitato dalle scale nella scuola Pirelli di Milano). Affidarsi dunque all’Autorità Giudiziaria per problemi di PMS, equivale giocoforza a lasciare esposti al pericolo – sempre che vi sia – i minori per periodi lunghi alcuni mesi. Se invece concludiamo che non vi è alcuna urgenza né rischio di incolumità – come sembrano suggerire i fatti – per gli alunni, non ha alcun senso importunare le Forze dell’Ordine e l’Autorità Giudiziaria distraendole da impegni ben più pressanti.
Altra sorpresa è costituita dallo stesso capo d’imputazione (art. 572 CP) che reca la denominazione di Maltrattamenti in famiglia (MiF) ma comprende anche i Maltrattamenti a scuola (MaS) pur essendovi sostanziali differenze. Infatti, la figura della donna nei MiF è solitamente quello di “vittima”, mentre nei MaS diviene, come per incanto, di “carnefice”. Una seconda peculiarità risiede nel fatto che nei MiF la gravità delle lesioni procurate è spesso drammatica (arriva talvolta perfino alla morte della vittima), mentre nei MaS è di tutt’altro tenore, se non addirittura insignificante (buffetto, scappellotto, strattone, sculaccione etc). Potremmo desumere che la donna/maestra, che si trova in posizione di forza rispetto all’alunno in virtù del rapporto asimmetrico e intergenerazionale, tende ad assumere atteggiamenti di superiorità fisica tipici dell’uomo. Tale conclusione però non è certamente sufficiente a giustificare i differenti livelli di gravità delle lesioni tra vittime in famiglia e a scuola. Forse più probabile che ciò sia dovuto al fatto che i MiF avvengono in luogo privato (dimora) e i MaS in ambiente pubblico (scuola).
Non dobbiamo dimenticare che le telecamere nascoste ingigantiscono, amplificano, esaltano, scotomizzano i comportamenti professionali del lavoratore. Tuttavia, le AVI contestate rappresentano mediamente solo lo 0,1% delle intercettazioni totali, rivelando implicitamente che il restante comportamento professionale della maestra – pari al 99,9% – è ineccepibile. Nella ricostruzione degli episodi inoltre si ricorre alle manipolazioni dei video attraverso decontestualizzazione, selezione avversa, estrapolazione, taglia e cuci, interpretazioni, drammatizzazioni e trascrizioni commentate da inquirenti non-addetti-ai-lavori. Il filmato originale non verrà mai visto per intero da alcun giudice (sarebbe assurdo tenere inchiodato un magistrato per 100/200 ore di fronte a un noiosissimo video) ma saranno estratti e riassemblati solo alcuni progressivi (cortometraggi) col risultato che frammentando il filmato si finirà per “fare a pezzi la realtà”.
Sensata pertanto la posizione di alcuni giudici del riesame che di fronte a simili ipotesi di reato ammettono che gli episodi finora contestati a scuola “…non integrano la soglia del penalmente rilevante ma esauriscono la loro censurabilità attraverso eventuali sanzioni disciplinari”.
Ma cosa direbbero i giudici protagonisti di “Mani pulite” di questa irruzione costosa e intempestiva della giustizia nella scuola, che favorisce la cortocircuitazione del dirigente scolastico? Vale qui richiamare proprio le parole dell’ex PM Gherardo Colombo che – nell’intervista su “Il Dubbio” del 26.06.16 – affermò profeticamente: “Intravedo nell’azione della Autorità Giudiziaria un accanimento nella ricerca dell’onere della prova piuttosto che la prevenzione del reato”.
Le cose non migliorano certo passando alla fase processuale. Basti richiamare due grossolane storture che condizionano la ricostruzione dei fatti nella contestazione degli episodi. Mai finora – infatti – è stato attentamente considerato il fondamentale confronto e la sostanziale differenza tra l’ambiente familiare e l’ambiente scolastico(definito in giurisprudenza “ambiente parafamiliare”). Le cinque macroscopiche differenze tra i due ambienti sono:
a) rapporto individuale 1:1 (casa) VS 1:29 (scuola);
b) stile educativo singolo (casa) VS. stili educativi multipli (scuola);
c) educazione del bimbo (casa) VS sua socializzazione e insegnamento allo stesso (scuola);
d) ambiente privato (casa) VS. pubblico (scuola);
e) figure di riferimento genitori (casa) VS. figura unica della maestra (assenza figura riferimento maschile/autorità a scuola).
Il significato di familiare e parafamiliare è fondamentale per comprendere la differenza tra il ruolo della mamma-educatrice e quello della maestra-professionista perché i ruoli sono affatto diversi per quanto complementari. Si pensi alla madre – come esempio non esaustivo ma oltremodo significativo – quando deve imboccare, accudire, addormentare, risvegliare e via discorrendo l’unico figlio: i tempi sono dilatati, il rapporto è unico, lo stile educativo è il medesimo, l’ambiente è riparato e così via. La maestra si trova a dover fare la stessa cosa con 29 bimbi contemporaneamente in un unico ambiente.
Pretendere quindi che la maestra non gridi, non strattoni, non perda mai le staffe e non ricorra a maniere spicce o talvolta brusche diviene impossibile. Se poi ci sarà anche una sola coppia genitoriale che non apprezza lo stile educativo della maestra, sostenendo che questa si accanisce col proprio figlio e magari qualcun altro, la storia si ripeterà non appena saranno installate telecamere nascoste. Sarà semplicissimo raccogliere tutti gli episodi che possono aver avuto luogo in uno o due mesi di intercettazioni – pari come detto allo 0,1% delle AVI totali – collezionando tutti i momenti in cui la maestra “scoppia”. Nessuna maestra/educatrice si salverà, anche perché si tratta di una professione da poco riconosciuta come “gravosa”.
Infine, le indagini, contro ogni aspettativa logica, non risultano mai valutare il ruolo della famiglia (prima Agenzia Educativa di qualsiasi individuo) nella crescita dei bimbi, focalizzandosi esclusivamente sulle maestre della scuola (seconda Agenzia Educativa) come eventuale fonte di ogni disturbo e malessere degli alunni. L’esclusione a priori di una qualche influenza negativa da parte delle famiglie nei confronti dei loro bambini assume il sapore di un intollerabile pregiudizio nei confronti della categoria professionale delle maestre.
Serve davvero spiare le maestre dal buco della serratura? È tempestivo l’intervento dell’Autorità Giudiziaria? È veramente necessario e urgente? È economica la soluzione fin qui prospettata? Conviene cortocircuitare il dirigente scolastico che è l’unico vero addetto ai lavori e col giusto know-how per intervenire? Non conviene imitare gli altri Paesi? Non stiamo ingiustamente perseguitando coloro che crescono i nostri figli? E soprattutto: non è meglio ristabilire la collaborazione tra scuola e famiglia? Cui prodest questa situazione?
Vittorio Lodolo D’Oria