Nuovo round dinanzi i togati della Corte di Giustizia dell’Unione europea. A suon di arringhe nuovamente contrapposte due scuole di pensiero apparentemente inconciliabili, da una parte i sostenitori della lotta al crimine senza se e senza ma, opposti agli strenui difensori della riservatezza secondo i quali, al contrario, anche nel contrasto al malaffare la privacy deve essere mantenuta e conservata.
Il caso dibattuto (causa C-140/20 del 5 aprile 2022) prende spunto dalla condanna di un soggetto all’ergastolo per l’omicidio di una donna in Irlanda. Nell’appello presentato contro la sentenza del tribunale, l’interessato contestava, in particolare, che il giudice di primo grado avesse erroneamente ammesso come elementi di prova i dati relativi al traffico telefonico e i dati relativi all’ubicazione afferenti le stesse chiamate telefoniche. Per poter contestare l’ammissibilità di tali prove nel procedimento penale, l’imputato intentava, in parallelo, un’azione civile presso l’Alta Corte d’Irlanda, diretta a far dichiarare l’invalidità di talune disposizioni della legge irlandese del 2011 che disciplina la conservazione di tali dati e l’accesso agli stessi, adducendo che detta legge violava i diritti conferitigli dal diritto dell’Unione.
Al centro del dibattito il diritto di ogni Stato nell’ottenere e conservare – anche per molto tempo – i dati relativi al traffico telefonico di un determinato indagato, insieme agli indirizzi IP e agli acquisti di SIM prepagate.
In Italia la materia è regolata dall’art. 132 del Codice Privacy che stabilisce un tempo di conservazione di 30 giorni per i dati relativi alle chiamate senza risposta, di 24 mesi per i dati relativi al traffico telefonico e 12 mesi per i dati relativi al traffico telematico, tutti termini prolungati sino a 6 anni dalla Legge 167/2017.
I movimenti di ciascuno, infatti, sono sempre accompagnati dai device che ognuno porta con sé, autentiche scatole nere in grado di registrare la nostra posizione, con chi intratteniamo rapporti epistolari (digitali), i siti Internet visitati e così via. Proprio dall’analisi e dall’elaborazione di tali tracce informatiche gli inquirenti riescono sovente a ricostruire i fatti delittuosi, attribuendo moventi, collusioni, correità e presenze sulla scena del crimine, oltre che dimostrare frequentazioni e spostamenti di ogni inquisito. Ma fino a quando è lecito conservare tali “scatole nere”?
Se sull’uso di tali dati ormai è pacifica la possibilità di utilizzo ai fini di prevenzione e contrasto del crimine, più sfumata appare la possibilità di uso sine die di tali informazioni, seppur strumentali alla lotta al crimine; sulla cornice temporale all’interno della quale è possibile custodire e – all’occorrenza – tirare fuori vecchi tabulati, infatti, si è accesso negli ultimi anni un acceso dibattito, sino allo scorso mese quando, appunto, una pronuncia della Corte UE, ha messo (forse) la parola fine alla diatriba.
Secondo i giudici del Lussemburgo, infatti, il diritto dell’Unione non osta a misure legislative che prevedano, a titolo preventivo, la conservazione generalizzata e indifferenziata dei dati relativi al traffico e dei dati relativi all’ubicazione afferenti alle comunicazioni elettroniche, per finalità di lotta ai reati gravi. Rimane però vivo il divieto per le autorità di effettuare “schedature di massa”, con la raccolta indiscriminata di dati senza “data di scadenza” ma – ed è qui la peculiarità della pronuncia – la repressione del crimine ammette la conservazione mirata delle informazioni investigative raccolte sulla base di specifiche “categorie” di persone o a determinate aree geografiche.
Sempre in sentenza, la Corte UE ribadisce che i funzionari di polizia non possono, da soli, richiedere e accedere ai dati per scopi investigativi ma, al fine di garantire, nella pratica, il pieno rispetto delle rigide condizioni di accesso a dati personali quali i dati relativi al traffico e i dati relativi all’ubicazione, l’accesso da parte delle autorità nazionali competenti ai dati conservati deve essere subordinato ad un controllo preventivo effettuato o da un giudice o da un organo amministrativo indipendente. Insomma, niente arbitrii: con i dati non si scherza.