Uno degli ostacoli allo sviluppo economico italiano viene indicato nella “burocrazia”, percepita come patologicamente malata, responsabile della lentezza delle decisioni in danno dell’operato di imprese e cittadini, che la avvertono come qualcosa di inafferrabile e nemica.
La burocrazia, una specie di creatura mitologica, rappresenta una dimensione ordinamentale – composta da donne e uomini, luoghi labirintici, leggi, procedure, regole e prassi – non facilmente fotografabile, quasi impalpabile e, pertanto, difficilmente disciplinabile.
La pluralità di soggetti che intervengono in un procedimento per l’emanazione di un provvedimento porta, sovente, ad adottarlo in ritardo. L’accumulo di legislazione e regolamentazione farraginosa e mal scritta, persino incomprensibile agli addetti ai lavori, oltre a rallentare i tempi di attuazione e l’efficacia dell’intervento pubblico, rende lo stesso spesso inutile.
L’eccessiva prudenza e reticenza nel prendere decisioni dei dirigenti, sempre più intimoriti dalla minaccia penale (a partire dall’abuso di ufficio) e tranquillizzati soltanto dalla comfort zone del “precedente”, completa il quadro raffigurato.
Il “tempo” è importante solo per i cittadini e le imprese, mentre per la burocrazia è una risorsa infinita che si dovrebbe contrastare con la semplificazione, la cultura dell’obiettivo, una draconiana riduzione delle leggi da redigere in modo qualitativamente migliore e, non da ultimo, mediante la digitalizzazione che riduce certamente le lunghezze procedimentali.
Prima di tutto, però, occorre una sensibile diffusione della coscienza del valore del “pubblico”. Ciò che è “pubblico” non è una res nullius che non appartiene a nessuno e, di conseguenza, può essere bistrattato da chiunque.
Il “pubblico” è una propaggine della sfera privata, un’estensione del patrimonio personale fruibile anche dagli altri, una prosecuzione del privato godibile pro quota dalla comunità, sebbene con differenti disposizioni giuridiche: se getto il mozzicone di sigaretta sul selciato di una strada sporco qualche cosa che è mio oltre che degli altri; se presto servizio in un ministero devo essere consapevole che le mie determinazioni si espandono al di fuori di quelle mura, incidendo sulle esistenze di persone in carne ed ossa.
Non solo dall’alto con le norme, ma anche dal basso con una formazione permanente, si può dare respiro ad una nuova azione amministrativa più incisiva e adeguata ad un’epoca transnazionale. Aumenta, così, il valore del lavoro pubblico accrescendo l’attrazione verso di esso di personale tecnicamente attrezzato.
La nostra Costituzione non può rimanerne indenne, ovviamente, da tutto questo sommovimento. La “Grande Riforma” costituzionale depositata in Senato il 4 luglio 2020 dal sen. Manuel Vescovi positivizza, fra l’altro, questa nuova ipostasi di concezione di Pubblica Amministrazione e pubblico impiego, grazie alla aggiunta di un quinto comma all’art. 97 Cost.: “La retribuzione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni è determinata in base al merito. L’avanzamento della carriera avviene soltanto per merito e per obiettivi”.
Vescovi appone un punto fermo di natura costituzionale allo sviluppo della “Amministrazione di risultato” sorta con la legge Brunetta nel 2009. La novellazione dell’art. 97 Cost. costituzionalizza una nuova architettura “interiore” amministrativa, non più basata sul “tempo”, sull’orario di lavoro e di servizio, ma sui risultati ottenuti entro un certo arco temporale.
Il tempo non è più elemento strutturale del contratto lavorativo ma ne costituisce la cornice nella quale l’obiettivo deve essere attinto. Il risultato sostituisce il tempo: il primo diviene elemento essenziale del rapporto di lavoro sostituendosi al secondo, che viene depotenziato, degradato ad elemento accidentale del contratto di lavoro subordinato.
Elemento strutturale diviene l’obiettivo, mentre il tempo è solo un confine delimitante l’ambito di azione pubblica. Il risultato inevitabile, che costituisce anche il soffio vitale della novella costituzionale, è il merito. Non conta più il tempo trascorso in ufficio ma soltanto quanto si è prodotto e, così, il merito diviene la vera, e unica, bussola che qualifica l’azione lavorativa del dipendente, imponendosi come paradigma di valutazione dell’impegno professionale.
La Costituzione immaginata da Vescovi fa proprio il principio coniato dall’Università di Bologna: l’“imprenditività”. Ogni impiegato pubblico si impegna come se lavorasse per se stesso sentendosi parte di un ingranaggio, percepito come proprio, a cui si vuole fornire un contributo.
Il dirigente pubblico al pari del commesso partecipano, ognuno per una propria porzione, delle conclusioni decisionali imputabili all’Italia o ad essa dirette. L’Italia si atteggia e si costruisce come Stato, Nazione, Patria e Azienda.
Questa nuova visione del lavoro pubblico è rafforzata dall’integrazione dell’art. 4, comma 1, Cost. inserita nella riforma Vescovi: in aggiunta al diritto al lavoro(qualsiasi forma e organizzazione esso possegga) la Repubblica (federale) riconosce in via autonoma anche l’esercizio dell’attività di impresa.
Il combinato disposto dei modificati artt. 4 e 97 Cost. esercita una funzione non solo programmatica, ma anche profetica e pedagogica: il modello classico del lavoro viene fortemente rivisitato e, in qualche modo, destrutturato e scardinato come un dipinto cubista, per giungere, o almeno transitare, in uno schema contrattuale, pubblico o privato che sia, ove il lavoratore (in veste di Giano non bi ma tri-fronte) assumerà sì il ruolo di dipendente, abbinato, però, a sembianze di libero professionista e, infine, persino di imprenditore, associando un ritrovato benessere individuale professionale ad un cambiamento epocale, da decenni atteso, nel mondo dell’impiego pubblico.