a cura di Paola Marchetti*
Da anni, le comunità psichiatriche laziali, che lavorano sul fronte della residenzialità accreditata svolgendo quotidianamente una funzione sussidiaria di servizio pubblico, lamentano una drammatica mancanza di visione e di progettualità da parte della Regione Lazio. Una situazione che si è ulteriormente aggravata in questi anni di pandemia (nuove e vecchie solitudini, nuove e vecchie dipendenze, psicopatologie, precarietà, insicurezze, episodi di violenza, specie tra i giovani, di cui quotidianamente ci racconta la cronaca, danno il senso di una situazione sociale che rischia di andare fuori controllo), senza che la parte pubblica, nonostante fiumi di belle parole e di impegni astratti, abbia mai prodotto un cambio di passo, capace di caricarsi davvero di questo peggioramento della situazione sociale.
Qua e la qualche annuncio spot, qualche misura palliativa (come il bonus psicologo), ma senza intervenire davvero sui nodi di fondo che oggi fanno del disagio mentale una grande questione, sanitaria e sociale, che riguarda ampi strati di società e non soltanto una minoranza di “matti”.
Le strutture patiscono scelte politiche sbagliate e a volte incomprensibili, determinazioni tariffarie bloccate da oltre dieci anni, nonostante gli aumenti dei costi del personale, delle materie prime, dell’energia e degli effetti economici della pandemia, affrontati spesso in solitudine e senza aumenti di budget, al fine di tutelare la salute dei pazienti ad esse affidati.
In un periodo estremamente complicato, come quello che ha caratterizzato questi ultimi due anni e mezzo, con tutti gli indicatori che parlano di un vertiginoso aumento dei bisogni di salute mentale, sono state proprio queste strutture ad aver garantito la tenuta del sistema, ad essersi caricate quotidianamente di sempre più nuovi casi, inviati dalle istituzioni pubbliche intermedie che si occupano di salute mentale. Salvaguardare, tutelare e rafforzare questo sistema non è una esigenza privata di pochi, dovrebbe essere un problema di tutti, che parla la lingua del benessere sociale e quello della salvaguardia di un lavoro di cura che nei nostri territori significa anche occupazione di qualità.
Di fronte a questo scenario, la risposta della politica e della Regione Lazio, nello specifico, è stata burocratica, distratta, sempre uguale a se stessa. Inadeguata. Il fabbisogno regionale, che regola la possibilità di allargamento dei posti nelle comunità, non copre più del 20% della domanda che arriva dai territori, in un contesto sociale sempre più fragile, dove le risposte tradizionali appaiono insufficienti e non in grado di fare da argine alle nuove forme di psicopatologia e di dipendenza.
La compartecipazione socio sanitaria, ormai annullata dalla giustizia amministrativa, vegeta in una sorta di limbo, in attesa che siano sanati i danni, anche economici, causati alle strutture, ai pazienti, alle famiglie, ai Comuni. L’abissale distanza tra il decisore politico regionale e la concretezza di problematiche quotidiane sempre più complesse ha anche la forma dell’inesistenza di luoghi istituzionali veri di partecipazione, dove potersi misurare, non sulla parcellizzazione delle misure, ma su una visione di sistema all’altezza di una domanda sempre più stringente, allarmante e drammatica.
La questione della salute mentale nella Regione Lazio è come cristallizzata nel tempo, ferma da più di dieci anni, incapace di misurarsi con bisogni crescenti e con domande “deboli” che, invece, avrebbero bisogno di essere scovate ed incoraggiate dentro percorsi terapeutici e socio riabilitativi, efficaci e contemporanei.
In questi anni la Fenascop Lazio si è resa sempre disponibile a partecipare ai tavoli di lavoro della Regione Lazio e a portare il proprio contributo derivante dalla concreta esperienza maturata nelle strutture comunitarie della riabilitazione psichiatrica. Ma spesso i luoghi della Regione hanno avuto le forme dei “muri di gomma”, delle risposte mancanti, delle promesse senza alcun seguito, delle comunicazioni disattese.
Quanto bisognerà aspettare prima che “questa politica” si renda conto che non rispondere per tempo ad un ragazzo che chiede aiuto, “trascurare” i segnali di disagio psichico, significa alimentare una potenziale bomba ad orologeria, con effetti negativi, in primo luogo sul ragazzo, ed, in subordine, sulla società nel suo insieme e perfino sulla spesa sanitaria?
*Presidente Fenascop Lazio