Il 14 ottobre, l’Istat ha pubblicato il report sulla cosiddetta economia non osservata, ovvero tutte quelle attività produttive di mercato che, per motivi diversi, sfuggono all’osservazione diretta, la cui misurazione pone particolari problemi.
L’economia non osservata il cui valore nel 2020 si riduce a 174,6 miliardi di euro (- 14,1%), comprende, essenzialmente, l’economia sommersa e quella illegale. In particolare l’economia sommersa si è attestata a poco più di 157 miliardi di euro mentre le attività illegali superano di poco i 17 miliardi di euro. Di conseguenza crolla diminuisce anche l’incidenza sul Pil che si ferma al 10,5% (contro l’11,3% del 2019). Rispetto al 2019, il valore dell’economia non osservata si è ridotto complessivamente di quasi 30 miliardi, quando ammontava a circa 203 miliardi di euro.
Le principali componenti dell’economia sommersa sono costituite dal valore aggiunto occultato tramite comunicazioni volutamente errate del fatturato e/o dei costi (sotto-dichiarazione del valore aggiunto) o generato mediante l’utilizzo di lavoro irregolare. Ad esso si aggiunge il valore degli affitti in nero, delle mance e una quota che emerge dalla riconciliazione fra le stime degli aggregati dell’offerta e della domanda.
La diffusione del sommerso economico risulta fortemente legata al tipo di mercato di riferimento piuttosto che alla tipologia di bene/servizio prodotto. Nella classificazione utilizzata a questo fine, le attività industriali sono distinte in Produzione di beni di consumo, Produzione di beni di investimento e Produzione di beni intermedi (che include il comparto energetico e della gestione dei rifiuti). Nel terziario, le attività dei Servizi professionali sono considerate separatamente dagli Altri servizi alle imprese.
Nel complesso, i settori dove è più alto il peso del sommerso economico sono gli Altri servizi alle persone, dove esso costituisce il 34,2% del valore aggiunto del comparto, il Commercio, trasporti, alloggio e ristorazione (22,1%) e le Costruzioni (19,3%). Negli Altri servizi alle imprese (4,8%), nella Produzione di beni d’investimento (3,7%) e nella Produzione di beni intermedi (1,7%) si osserva invece un’incidenza minore.
L’economia illegale include sia le attività di produzione di beni e servizi la cui vendita, distribuzione o possesso sono proibite dalla legge, sia quelle che, pur essendo legali, sono svolte da operatori non autorizzati. Le attività illegali incluse nel Pil dei Paesi Ue sono la produzione e il commercio di stupefacenti, i servizi di prostituzione e il contrabbando di sigarette.
Per quel che attiene al lavoro irregolare, fra il 2019 e il 2020, si è registrata una riduzione del 25% del valore aggiunto generato dai lavoratori indipendenti irregolari (che incidono in maniera più rilevante sulle imprese di piccolissime dimensioni) e un calo di oltre il 15% di quello connesso all’impiego di dipendenti irregolari nelle imprese con meno di cinque addetti.
La crisi pandemica ha avuto effetti considerevoli sul ricorso al lavoro irregolare che, per la prima volta dall’inizio della serie (1995), risulta inferiore ai 3 milioni di unità. Nel 2020, infatti, sono 2 milioni e 926 mila le unità di lavoro a tempo pieno (ULA) in condizione di non regolarità, occupate in prevalenza come dipendenti (circa 2 milioni e 153 mila unità). L’occupazione non regolare segna, dunque, un calo del 18,4% rispetto al 2019, registrando una diminuzione pari a quasi il doppio di quella regolare (-9,9%).
Anche nel 2020 il tasso di irregolarità si conferma più elevato tra gli occupati dipendenti in confronto agli indipendenti, rispettivamente 13,9% e 13,0%.
In generale, l’incidenza del lavoro irregolare è più rilevante nel terziario (14,5%) e raggiunge livelli particolarmente elevati nel comparto degli Altri servizi alle persone (43,4%), dove si concentra la domanda di prestazioni lavorative non regolari da parte delle famiglie. Molto significativa risulta la presenza di lavoratori irregolari in Agricoltura (18,4%), nelle Costruzioni (13,5%) e nel Commercio, trasporti, alloggio e ristorazione (15,3%).