Il reato dei maltrattamenti in famiglia inizialmente (1859) riguardava e ricomprendeva esclusivamente soggetti attivi e passivi della cerchia parentale ristretta. In seguito, lo stesso è stato notevolmente ampliato, con l’inclusione delle persone legate da rapporti di supremazia, gerarchia, soggezione, educazione, lavoro, ovvero laddove esista l’elemento della parafamiliarità. Questa supera il semplice legame familiare ed è intesa dalla Corte di Cassazione come “rapporto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia (…) connotata dall’esercizio di un potere direttivo, educativo o disciplinare tale da rendere ipotizzabile una condizione di soggezione, anche solo psicologica, del soggetto passivo”.
Questo cenno storico è necessario per comprendere la situazione odierna che riconduce i “maltrattamenti a scuola” sotto lo stesso articolo 572 del Codice penale denominato per l’appunto “Maltrattamenti in famiglia”. Per valutare se l’accostamento dei delitti familiari e parafamiliari abbia un senso è prima doveroso comparare frequenza, ambiente, gravità, metodi d’indagine e soprattutto natura, movente e conseguenze dei due reati in ambiente familiaree scolastico.
Le statistiche dimostrano, senza ombra di dubbio, che i maltrattamenti in famiglia sono infinitamente più numerosi rispetto a quelli che avvengono a scuola, seppure questi ultimi siano (artificiosamente?) cresciuti molto negli ultimi anni. Curioso notare come i metodi d’indagine sono sostanzialmente diversi, infatti nella sola scuola si ricorre alle intercettazioni, con tutti i relativi limiti di cui ho ampiamente trattato in precedenti articoli: pesca a strascico, decontestualizzazione, selezione degli episodi, drammatizzazione, inquirenti-non addetti-ai-lavori. Pure la gravità degli episodi violenti in famiglia e a scuola è assolutamente incomparabile: botte, lesioni, ferimenti che talvolta sfociano in efferati omicidi nella prima (famiglia) e qualche scappellotto, strattonamento o richiamo stentoreo nella seconda (scuola).
Certamente l’ambiente in cui avviene il reato ha una notevole influenza perché “privato”, quello domestico, e “pubblico” quello scolastico. Nell’intimità della propria dimora, inosservati da potenziali testimoni, è infatti possibile liberare anche gli impulsi più bestiali. Le mura domestiche, d’altronde, isolano, nascondono, proteggono e riparano da intrusioni esterne, così come da occhi indiscreti. Al contrario la scuola è a tutti gli effetti un ambiente “pubblico”, che non garantisce, per sua natura, altrettanta riservatezza e libertà di azione.
Quale ricaduta pratica può dunque avere questa differenza tra un ambiente “privato” (casa) e uno “pubblico” (scuola) dove operano rispettivamente genitori e insegnanti? Una maestra, nello svolgimento del suo lavoro, resterà sempre sotto l’osservazione di molti sguardi (dei bimbi, innanzitutto, ma anche dei colleghi dei bidelli e del dirigente scolastico) e tenderà, di riflesso, a esercitare su di sé un determinato autocontrollo. Chiameremo questo condizionamento come “autocontrollo condizionato dall’ambiente”. Ne esiste tuttavia un altro che invece chiameremo“principio di diluizione della relazione”, basato sul numero degli interlocutori presenti nell’ambiente. In altre parole, il rapporto materno/genitoriale col figlio è più o meno esclusivo (1:1), mentre la relazione della maestra con i bimbi è sempre “collettiva” o “gruppale” (per legge fino a 1:29), perciò diluita/stemperata tra tutti gli alunni da accudire.
L’intensità di uno sfogo, di un’emozione o un impulso di rabbia viene pertanto smorzato e diluito quando la relazione non è esclusiva ma coinvolge più interlocutori, determinando così un fisiologico e maggiore “controllo degli impulsi”.Ciò spiegherebbe, di conseguenza, il maggior rischio di eventi luttuosi all’interno delle mura domestiche, rispetto alla scuola.
A casa, inoltre, vi è un legame di consanguineità tra i familiari che configura un’identità alla quale è impossibile sottrarsi: l’identità di figlio, fratello, sorella, genitore, coniuge, è “per sempre” e neanche la morte potrà cancellarla. Proprio questa condizione di ineluttabilità vuole che in famiglia si ricerchino costantemente degli equilibri per trovare un accordo di convivenza, un modus vivendi. Qualora, invece, il conflitto familiare fosse portato all’estremo, resta solo la fallace illusione di sottrarsi al confronto fuggendo dalla famiglia o, peggio, annientando fisicamente l’altro, come talvolta avviene, con l’omicidio.
A confermare empiricamente la grande differenza tra i maltrattamenti in famiglia e a scuola riporto le parole di un magistrato milanese che, recentemente, nell’ambito di un processo a carico di una maestra imputata di maltrattamenti sui suoi alunni, dichiarava che, secondo la sua consolidata esperienza nello specifico settore, “i reati contestati in ambito familiare, rispetto all’ambiente scolastico, sono di ben altra natura e gravità”.
Nel medesimo periodo, un suo collega sardo affermava, in analogo procedimento penale contro una maestra, che “i comportamenti dell’insegnante non integrano la soglia del penalmente rilevante ma esauriscono eventualmente la loro censurabilità con un provvedimento disciplinare”. Forte del centinaio di casi di presunti maltrattamenti a scuola di cui ho avuto modo di leggere gli atti, ritengo assolutamente fondate e generalmente applicabili le affermazioni dei suddetti magistrati, restituendo ai dirigenti scolastici il compito di vigilare ed eventualmente sanzionare comportamenti professionali impropri garantendo equità, tempestività e sicurezza.
La restrizione dell’uso delle intercettazioni, voluta dal ministro Nordio (Grazia e Giustizia), potrebbe dunque partire proprio dalla scuola, dirottando le cospicue risorse risparmiate (economiche, di personale e tecnologiche) verso i crimini che ne abbisognano maggiormente, ivi inclusi i maltrattamenti in famiglia, lo stalking e i femminicidi.
Forse è arrivato il momento di renderci conto che non possiamo più confondere le pere con le mele e trattare tutti allo stesso modo senza alcun criterio logico.