Case green, aziende agricole green, frigoriferi green, caldaie green e, “of course”, auto green. Gli euro-deliri in salsa ecologica di Commissione e Parlamento Ue hanno ormai assunto le sembianze di una furente guerra ideologica di “gretina” memoria e, senza alcun criterio di razionalità e senso della realtà, puntano a travolgere come un caterpillar la maggior parte dei sistemi industriali e dei tessuti economico-sociali dei Paesi membri.
Ma l’aspetto più paradossale di questa crociata, cavalcata e propagandata come un dogma evangelico da tutti i media del mainstream, è che la palingenesi climatica da presunte emissioni zero sarebbe a dir poco un miraggio, o meglio, un vero e proprio inganno. Ma vediamo perché.
Il piano “Fit for 55” presentato dalla Commissione presieduta da Ursula Von Der Leyen, si è posto l’obiettivo di ridurre del 55% le emissioni di CO2 entro il 2030 e ha ordinato lo stop a tutte le auto diesel e a benzina nel 2035, imponendo l’elettrificazione forzata del trasporto privato, con l’eccezione delle vetture alimentate con carburanti sintetici per espressa volontà della Germania e l’esclusione dei biocarburanti da scarti di origine vegetale e animale, come, invece richiesto dal Governo italiano, nell’ottica di un fantomatico e illusorio principio di “neutralità tecnologica”.
Oltre al consueto trattamento di favore riservato dalle istituzioni comunitarie a Berlino, è l’ossessione per l’azzeramento dell’anidride carbonica l’assunto fallace che ha originato una serie infinita di misure e obiettivi, i quali non solo rischiano di essere sostanzialmente irrealizzabili, ma provocherebbero la desertificazione di un settore industriale di eccellenza come quello dell’automotive e la distruzione o quantomeno la devastazione del tessuto economico-sociale di gran parte del Vecchio Continente.
La “religione” dell’elettrico a tutti i costi metterebbe l’industria dell’automobile continentale nelle mani del Dragone cinese. Infatti, tutti i componenti indispensabili per la produzione di batterie di auto a conduzione elettrica vengono dalla Cina, anzi, dagli Stati africani che sono ormai dipendenti finanziariamente da Pechino, dove vengono assemblati nelle centrali a carbone, notoriamente molto inquinanti. Inoltre, le aziende automobilistiche tedesche, specialmente la Volkswagen, che avevano puntato fortemente in questa direzione, si stanno accorgendo di non riuscire giocoforza a competere con i volumi di produzione cinesi e hanno innestato una parziale retromarcia sul “full electric”.
Quindi, passare dalla dipendenza di approvvigionamento del gas dalla Russia a quella dei componenti elettrici per auto dalla Cina non sembra essere una mossa geopolitica particolarmente lungimirante e non migliorerebbe affatto la qualità dell’aria che respiriamo, in quanto i Paesi emergenti, africani sudamericani e asiatici, responsabili del maggior tasso di inquinamento a livello mondiale, non rinuncerebbero a produrre energia con fonti fossili, rendendo vano ogni sforzo europeo di un mondo a zero emissioni.
Un altro aspetto critico da non sottovalutare riguarda il rischio di sovraccarico che deriverebbe da una ricarica contestuale delle auto private alle colonnine che andrebbero installate nelle strade delle nostre città, soprattutto nei periodi estivi, in cui si fa largo uso dei condizionatori. Un blackout generalizzato, infatti, si è verificato in California poche settimane fa, per il numero eccessivo di mezzi che stavano ricaricando le batterie durante la notte. Batterie che, ad oggi, non hanno una grande autonomia, sono molto costose e rendono inaccessibili economicamente le vetture elettriche ad almeno l’80% della popolazione italiana ed europea.
Anche la filiera della componentistica per auto a motore endotermico, molto fiorente in Italia, sarebbe costretta a tentare una complessa riconversione industriale per poter sopravvivere, dato che le auto elettriche necessitano di un numero molto inferiore di elementi rispetto a quelle tradizionali. In sintesi, solo in Italia, tra aziende e indotto potrebbero perdere il lavoro più di 250.000 addetti del settore, con gravi ricadute economico-sociali.
Ma siamo sicuri che alla base del Green Deal europeo ci siano soltanto motivazioni ideologiche? Non sarebbe il caso di domandarsi semplicemente “cui prodest”? Nell’ultimo decennio la grande finanza, con in prima linea nomi come Bill Gates e George Soros, ha deciso di investire cifre considerevoli nella rivoluzione verde, per non rischiare un altro crollo borsistico di proporzioni ancora più devastanti di quello originato dall’abuso dei derivati e dei subprimes americani del 2007-2008 che poi si si tradusse nella crisi dei debiti sovrani europei.
Basterebbe indagare su quali società e multinazionali, legate a doppio filo con i partner cinesi sotto il diretto o indiretto controllo governativo, hanno ricavato o stanno ricavando i maggiori utili e profitti dal business green per fare due più due e capire a chi conviene realmente questa forzata rivoluzione sistemica dalle mille incognite. Le stesse società che veicolano tramite ogni mezzo di comunicazione il pensiero unico della catastrofe ecologica, che da decenni, secondo le loro fallaci previsioni, avrebbe già dovuto distruggere il pianeta terra a causa delle emissioni climalteranti.
Infine, una considerazione di carattere storiografico e una di carattere scientifico: conviene mettere a rischio il nostro modello sociale e mandare al macero una delle nostre industrie di eccellenza senza migliorare realmente la qualità del clima in cui viviamo? Pensare che sia possibile costruire un sistema produttivo avanzato e mantenere al contempo un benessere diffuso eliminando completamente i fattori cosiddetti inquinanti è una pura utopia.
Un’utopia che, per la teoria dei corsi e ricorsi storici di Giambattista Vico, assomiglia sempre di più all’abbaglio e all’inganno ideologico più mastodontico del XX secolo, il comunismo, che mentre prometteva la liberazione dallo sfruttamento e una società di liberi ed uguali, ha in realtà costruito il più longevo e disumano sistema dittatoriale e di privazione e negazione della libertà umana della storia contemporanea.
Non vorremmo “svegliarci” nuovamente dopo 70 anni verso la fine di questo secolo e dover ammettere che l’inquinamento non è stato eliminato ma la nostra società del benessere, che ha bene o male salvaguardato ambiente e sviluppo economico, non esiste più. Nonostante lo si spacci come un dato incontrovertibile, non esiste unanimità della scienza e alcuna minima certezza che il cambiamento climatico, da sempre ciclico, sia di origine antropica.
Pertanto, appare quantomeno masochistico e autolesionistico scegliere deliberatamente di disastrare il nostro sistema industriale ed economico-sociale, forzando una transizione ecologica, o per meglio dire, “neurologica”, che, come un novello Frankenstein, rischia di ritorcersi contro il suo stesso creatore.