Vae Victis, “Guai ai vinti”. Parafrasando la celebre affermazione attribuita al re dei Galli Brenno, dopo aver saccheggiato Roma nel 390 a.C., questa sembra la prospettiva ineluttabile del Partito Democratico che dall’anno della sua fondazione, nel 2007, non è mai riuscito a vincere le elezioni e a diventare il partito di maggioranza relativa del Paese, nonostante sia stato al potere in governi di coalizione per almeno 8 anni nell’ultimo decennio, grazie a due legislature senza alcun vincitore netto e ai buoni uffici dei Presidenti della Repubblica, garanti spesso attenti al proprio partito di provenienza.
Già dal 2018, nonostante il pessimo risultato conseguito alle Legislative, il Partito Democratico, dopo la parentesi gialloverde interrotta dal Papeete di Salvini, riuscì a tornare al governo per il mancato scioglimento delle Camere garantito da Mattarella e la nascita prima dell’esecutivo giallorosso, formato con il M5S, l’estrema sinistra e Italia Viva, e poi dell’esperimento Draghi, con tutti i partiti dentro ad eccezione di Fratelli d’Italia.
Tuttavia, le contestuali elezioni regionali che si succedevano in quegli anni, segnarono continue sconfitte per la compagine di sinistra, rendendo lampante che la maggioranza del Paese reale era completamente opposta a quella variopinta e disomogenea che sosteneva i ministeri in carica.
Nel 2022, ad uno anno dalla fine naturale della Legislatura, i pentastellati, resisi conto che sostenere ancora Draghi avrebbe potuto comportare un conto troppo salato alle Politiche alle porte, gli tolsero la fiducia e fecero cadere il governo di larghe intese, conducendo il PD verso una storica sconfitta alle elezioni del 25 ottobre, stravinte da Giorgia Meloni e il centrodestra.
L’approdo all’opposizione, invece di indurre la Schlein a un’analisi profonda delle ragioni di mancata sintonia con il sentire della Nazione, ha radicalizzato ulteriormente le posizioni del Nazareno, dal fine vita ai matrimoni gay, dalla maternità surrogata, alle ambiguità delle posizioni sull’invio delle armi all’Ucraina assumendo una postura di totale contrasto alle iniziative legislative del Governo, senza offrire alcuna proposta alternativa, ad eccezione di quella sul salario minimo, che però è apparsa subito come puramente tattica e strumentale.
D’altronde, la permanenza così lunga al potere, senza produrre un trend positivo degli indicatori macroeconomici, né dal lato della crescita e della produttività né da quello della riduzione del debito, non ha permesso una credibile critica all’operato governativo, poiché, a breve distanza dalla vittoria del centrodestra, le responsabilità dello stato dei conti pubblici e, in particolare, della sanità, erano facili da attribuire ai predecessori.
Se, però allarghiamo lo sguardo agli ultimi quattro decenni, l’analisi delle ragioni della minorità del principale partito della sinistra italiana appaiono chiare. In seguito alla fine dell’esperimento della solidarietà nazionale, nel 1979, il Partito Comunista Italiano si trovò in un vicolo cieco e senza più alternative di strategia politica da perseguire, soprattutto a causa della contrarietà ad allearsi con il Partito Socialista guidato da Craxi, che provava a cercare sponde nell’ala migliorista del PCI per indurre i dirigenti di Botteghe Oscure verso posizioni più riformiste e alzare al contempo il prezzo della sua collaborazione con la DC.
Berlinguer provò allora ad uscire dall’angolo in cui si era cacciato, con la famosa intervista a Scalfari del 1981, in cui parlò della “questione morale” della politica italiana, accusando il pentapartito di occupare tutte le istituzioni in maniera pantagruelica, dimenticando che i comunisti, oltre ad avere la loro quota fissa di “riconoscenza” sui lavori pubblici, ricevevano fiumi di denaro da Mosca e avrebbero continuato ad usufruirne fino al crollo dell’URSS nel 1991.
Proprio la fine dell’Unione Sovietica e la caduta del Muro di Berlino nel 1989, non convinsero il PCI ad effettuare una “Bad Godesberg”, abiurando il credo comunista palesemente, e a riconoscere la vittoria della socialdemocrazia italiana, che prima con Nenni e poi con Craxi avevano da molto tempo scelto il campo occidentale e liberaldemocratico.
Nel 1992 però, lo scoppio di Tangentopoli e la cancellazione per via giudiziaria di tutto il pentapartito, diedero l’illusione ai postcomunisti, che avevano da poco cambiato il nome del partito, di poter conquistare il potere facilmente, non avendo più avversari e ciò contribuì ad evitare una vera revisione valoriale degli eredi di Togliatti. Inoltre, la distruzione del PSI, i cui residui esponenti scelsero di entrare in Forza Italia e nei partiti del neonato centrodestra, rese monca la democrazia italiana di una vera alternativa costituita da una sinistra riformista e moderata.
Infatti, nel PSE, nel cui gruppo gli ex PCI erano riusciti a entrare solo grazie all’intercessione di Craxi, il PDS era l’unico partito frutto dell’unione di postcomunisti e cattolici di sinistra e non di socialisti e socialdemocratici. Dimostrazione plastica di ciò si è avuta pochi anni fa, quando la delegazione italiana al Parlamento europeo fu l’unica a non votare la condanna unanime dei totalitarismi del ‘900, che equiparava comunismo, nazismo e fascismo.
Inoltre, la perdita dell’appoggio, del sostegno finanziario e dell’armamentario ideologico sovietico, indusse Botteghe Oscure ad accettare subitaneamente, supinamente e acriticamente i diktat dell’Unione europea a trazione franco-tedesca, che, improntati alla più ottusa austerità, hanno compresso gli investimenti pubblici e la crescita, aumentando l’onere del debito pubblico italiano.
Ad esclusione delle Politiche del 1996, in cui la coalizione di sinistra prevalse per la mancata alleanza della Lega con il centrodestra, DS e Margherita prima e il PD poi, non sono mai riusciti a vincere le elezioni e sono rimasti al potere, a cavallo del primo e del secondo governo Berlusconi, solo con pezzi di partiti di centrodestra e grazie al mancato scioglimento del Parlamento da parte di Scalfaro, Napolitano e Mattarella.
Per questo permane una irriducibile ostilità del Nazareno alla riforma del Premierato a cui sta lavorando il Governo, che, con l’elezione diretta del capo del governo, renderebbe impossibile i ribaltoni e non tornare alle urne in caso di caduta di un esecutivo. Proprio quelle urne, dunque, sono viste con terrore e i cui responsi sempre contrari sono considerati dalla sinistra l’espressione di un insopportabile populismo, sono semplicemente l’essenza della democrazia, in cui la sovranità, come recita la Costituzione, appartiene al popolo. Qualche esponente più avveduto e assennato del PD ha ammesso recentemente che identificarsi con il potere e tradurre il proprio consenso solo con il clientelismo politico ha impedito alla sinistra di azzerare tutti i feticci ideologici e di interpretare la realtà con buon senso, modernizzando la propria proposta e linea politica.
In conclusione, se la segreteria Schlein, che si gioca il tutto per tutto alle imminenti Europee, non deciderà di invertire la rotta dell’alleanza con i pentastellati e insisterà nel rivendicare solo il perseguimento ottuso delle politiche Green, la difesa dei diritti delle minoranze e l’acquiescenza alle posizioni Ue, assumendo sempre più le fattezze di un partito radicale ma non di massa, come profetizzò il filosofo cattolico Augusto Del Noce negli anni ’ 70, faticherà a trovare un Furio Camillo che possa sconfiggere i Galli e scacciarli dalle mura di una Roma, sempre più assediata.