Sarebbe un errore sminuire l’importanza della firma in Campidoglio. Anche per il nostro Paese, un impegno decisivo
Sarebbe stato bello pensare che i morti di Londra (quella stessa Londra in odore sempre più forte di Brexit), avessero spinto gli ormai 27 Paesi Ue a ritrovarsi subito coesi davanti ad una “dichiarazione” peraltro messa a punto da tempo dal consueto lavoro di cesello degli sherpa. Invece, fino all’ultimo, la cerimonia dei 60 anni della firma dei Trattati di Roma ha rischiato di impantanarsi sul più bello, con almeno due “vedremo”. Atene per mere ragioni economiche; Varsavia a causa di un mix fatto di “vendetta” per la conferma dell’odiato compatriota Donald Tusk al Consiglio Europeo e avversione alla tesi delle “due velocità” tra Paesi che intendono spingere sull’unione e altri che potrebbero restare indietro.
Questo, almeno, raccontano le cronache. In realtà, alla fine, il consueto compromesso – annacquando le frasi un po’ qua e un po’ là – ha consentito di salvare la faccia. Sebbene dimostrando, ancora una volta, che la strada del rilancio dell’idea europea così forte quell’anno, il 1957, e così flebile, oggi, tra populismi e nazionalismi di varia natura e intensità, è molto forse troppo in salita. E tuttavia sarebbe un errore anche sminuire il significato della “firma” in Campidoglio.
“Agiremo assieme, a ritmi e intensità diversi dove necessario, ma muovendoci nella stessa direzione, come abbiamo fatto in passato, in linea con i trattati e tenendo la porta aperta a quelli che vogliono raggiungerci più tardi. La nostra Unione è indivisa e indivisibile”, dice il testo conclusivo del documento firmato solennemente dai Capi di Stato e di Governo. E quattro sono i punti nodali di quella che ora si chiama Dichiarazione di Roma: sicurezza dei confini/politica migratoria sostenibile; economia ovvero crescita/lavoro; Europa più sociale; sicurezza/difesa comuni nell’ottica di una più forte presenza sugli scenari internazionali. In sintesi: più velocità sì perché altrimenti, fermandosi, l’Europa resterebbe schiacciata, però dicendolo piano piano e, assieme, apparecchiando un tavolo per il salto di qualità e la presenza di quanti, col tempo, vorranno aggregarsi. Magari quando avranno valutato bene pro e contro del primo approccio alla riforma.
Non dimentichiamoci che questo resta pur sempre un anno di delicati passaggi elettorali (Francia, Germania), a ruota – primavera 2018 (se non ci saranno accelerazioni)- Italia. Dunque proprio tre dei maggiori sostenitori delle “due velocità” (gli altri due sono Spagna e quello che si usava chiamare un tempo Benelux, Belgio, Olanda, Lussemburgo). Come dire: l’esito delle urne peserà molto sui tempi e sui modi dell’attuazione dell’Agenda, adesso tutta nelle mani del presidente Jean-Claude Juncker.
Ma questo non vuol dire, ripetiamo, che la sfida non sia stata lanciata. E che questa sfida non risulti, evidentemente, decisiva. Giova non dimenticare mai che questi 60 sono stati 60 anni di Democrazia e di pace dopo due disastri bellici. In alcune aree comuni come moneta e libera circolazione delle persone, ci si è avvicinati a traguardi prima impensati. Si sono fatti anche molti gravi errori, soprattutto non ci si è accorti che la Democrazia va di pari passo, sempre, con l’Uguaglianza ed il Benessere assicurato a larghi strati della popolazione. E non può essere soltanto un caso fortuito (almeno a noi piace pensare così) che nello stesse ore in cui i 27 si trovavano assieme nella capitale rilanciando, tra gli altri, quel princìpio di solidarietà che fu portante per i padri fondatori, oltre un milione di persone festeggiassero Bergoglio, a Milano, accorciando la distanza tra centro e periferia della città forse più europea del nostro Paese.
Soltanto i prossimi due anni circa, di qui alle elezioni del 2019, ci diranno se la sfida sarà stata vinta. E’ comunque bello poter dire che sì, siamo tornati in partita. Ammonendo che senza Europa sarà assai più difficile risolvere quei problemi che gli anti-Ue pensano di superare puntando su isolazionismo, protezionismo e ingigantendo paure reciproche servendosi scientemente del terrorismo islamico.
Anche per l’Italia si fa troppo finta di non vedere che si tratta di una sfida. Far parte del gruppo ristretto che scommette sul futuro vuol dire farsi trovare pronti al filo di partenza e poi reggere il ritmo senza farsi venire il fiato corto. Abbiamo un governo di quasi-transizione che ha davanti, se tutto va bene, un anno scandito da esito del Congresso Pd, manovrine economiche di aggiustamento, nuova legge di bilancio inevitabilmente “forte”, fibrillazioni politiche un giorno sì e l’altro pure, forse rinnovati scontri sulle regole delle urne e la possibilità che proprio dal cilindro del voto esca il coniglio di una traumatica ingovernabilità. Ebbene, perché no, potrebbe salvarci proprio pensare al treno della nuova Europa. Come fu, soltanto pochi anni fa che pure sembrano un secolo, il ritrovato orgoglio nazionale per vincere una gara che sembrava impossibile ovvero l’ingresso nell’Euro.
Sempre stimolante, penso soprattutto ai giovani, sognare. Ne saremo, tutti, capaci?