Il reato di abuso d’ufficio è forse il più controverso di tutto il codice penale e costituisce da sempre terreno di scontro tra la politica – che attraverso il Parlamento scrive le norme – e la magistratura che deve applicarle.
La norma che lo disciplina – il noto articolo 323 del codice – è perennemente al centro di discussioni ed è stata spesso modificata… e non c’è bisogno di essere consumati giuristi, né raffinati politologi per comprendere che quando il Parlamento mette mano più volte in un tempo relativamente breve alla stessa legge, cambiandone la forma continuamente e aggiungendo commi e prescrizioni per poi toglierli poco dopo la loro entrata in vigore, qualcosa non va.
Il dato diviene allarmante se si considera che l’abuso di ufficio non è una norma penale qualsiasi, ma appartiene alla categoria dei “delitti contro la Pubblica Amministrazione”: è dunque posta a presidio dei cittadini per punire governanti e pubblici dipendenti quando amministrano in modo illecito.
Queste modifiche continue sono dunque la spia di un’indecisione di fondo sul modo in cui il nostro Paese considera (più o meno gravi, più o meno accettabili) le deviazioni dalla legalità da parte di chi rappresenta l’interesse pubblico…. E poiché le leggi le scrive il Parlamento, espressione della classe politica, la conseguenza poco edificante è che non vi è certezza su come i governanti intendono essere giudicati, cioè sui limiti che essi stessi si pongono nella loro azione amministrativa.
La divisione dei poteri che in tutti gli Stati costituisce il pilastro della democrazia dai tempi dell’Illuminismo comporta che il potere legislativo scrive le leggi per regolare l’azione del potere esecutivo (la Pubblica Amministrazione a tutti i livelli) e il potere giudiziario giudica e sanziona le eventuali violazioni di tale azione dai binari della legalità.
In sostanza, dunque, sono i controllati a dire ai controllori se e come vogliono essere controllati; naturalmente la classe politica è espressione della volontà popolare e risente dei suoi umori, altrimenti non saremmo in democrazia.
E dunque si può concludere, con un certo grado di approssimazione, che il continuo allargarsi e restringersi delle maglie dell’abuso di ufficio corrisponde alle oscillazioni che, nel tempo, gli italiani hanno avuto nel senso di legalità preteso dai propri governanti.
A periodi di richiesta di maggior rigore nella gestione della cosa pubblica corrispondono modifiche all’articolo 323 per renderlo più efficace come presidio giudiziario, mentre a periodi in cui prevalgono altre esigenze (ad esempio quella di garantire velocità ed efficienza della pubblica amministrazione e non paralizzarla per la paura dei suoi impiegati e funzionari di subire gli effetti della macchina della giustizia, che non sempre agisce in maniera impeccabile e con precisione chirurgica) corrispondono modifiche per sterilizzare la norma o limitarne gli effetti.
Vediamo perché.
Nel nostro codice penale l’abuso di ufficio non è l’unico reato contro la Pubblica Amministrazione e nemmeno il più grave: esistono altre norme che ad esempio puniscono – e molto severamente – i pubblici ufficiali che si accordano con un privato per favorirlo con i loro atti amministrativi in cambio di denaro (corruzione) o addirittura costringono i cittadini a pagare, come una specie di “pizzo di Stato”, per ottenere un atto (concussione), così come sono puniti i pubblici funzionari che si mettono in tasca il denaro pubblico loro affidato per ragioni di servizio (peculato).
Questi reati sono indubbiamente più gravi del semplice “abuso” dell’ufficio pubblico, colpiscono il malaffare pubblico assai più duramente, eppure non hanno alle spalle la travagliata storia del delitto punito dall’articolo 323 del codice penale.
Ciò che rende indigesto il “piccolo” abuso di ufficio è la sua genericità.
Quando è stato scritto il codice penale (quasi cento anni fa), in effetti, si era pensato proprio ad una norma di chiusura in cui far confluire tutti i casi in cui un amministratore della cosa pubblica deviasse dalla giusta condotta pur senza commettere uno dei reati più gravi, tanto che il reato si chiamava comunemente “abuso innominato (o generico) di ufficio”.
Vi rientravano tutte le condotte scaturite dalla volontà di favorire qualcuno (così come quelle commesse per danneggiare un singolo): l’agire del pubblico funzionario deve infatti essere ispirato all’imparzialità e alla tutela degli interessi di tutti.
Questa genericità non ha costituito un problema fino all’inizio degli anni novanta, quando una classe politica che sembrava eterna è crollata sotto i colpi delle inchieste giudiziarie, nella stagione passata alla storia con l’evocativo nome di Mani Pulite.
Molte delle accuse mosse ai politici dell’epoca riguardavano l’abuso di ufficio, norma la cui duttilità consentì di farvi rientrare sia i sospetti di corruzione non provati (si scopriva che un funzionario aveva preso una decisione platealmente scorretta, ma non si aveva prova che avesse ricevuto denaro per decidere in quel modo: il soggetto non poteva essere incriminato per corruzione, ma aveva comunque abusato del suo ufficio e dunque soccorreva la norma meno grave) che tutti i casi di illecita gestione della pubblica amministrazione.
La classe politica ci mise un po’ a riprendersi, ma capì immediatamente cosa doveva fare per non essere mai più esposta ad un tornado di quelle proporzioni: e così, nel 1997, appena convalescente, partorì una modifica dell’abuso di ufficio abolendo del tutto la sua genericità e sostituendola con dei presupposti così difficili da applicare da farla praticamente scomparire, da un giorno all’altro, dai Tribunali italiani.
Naturalmente l’intento dichiarato (e forse in parte sincero) non era certo di garantirsi l’impunità, ma di consentire a politici ed amministratori di gestire la cosa pubblica senza l’ansia di svegliarsi per lo scampanellio all’alba di carabinieri e finanzieri venuti ad arrestarli per avere genericamente gestito in modo scorretto il proprio ufficio…. L’ansia era evidentemente tale da partorire il sostanziale “normicidio” dell’articolo di legge.
Da allora tanta acqua è passata sotto i ponti: si è avuto un riscatto di orgoglio della politica con un tentativo di rivedere la stagione giudiziaria con occhi critici e censurarne non solo gli eccessi ma la stessa pretesa di controllo penale degli amministratori pubblici da parte dei magistrati (qualcuno ricorderà il disprezzo con cui un noto esponente politico affermò che un giudice, solo perché aveva vinto un concorso, non poteva permettersi di sindacare gli atti di chi era stato eletto dal popolo)…. Poi un nuovo rigurgito di legalità (al grido di onestà! Onestà!), cui ha fatto seguito una nuova modifica dell’abuso di ufficio con innalzamento delle pene previste per rendere nuovamente la norma
presidio contro i criminali investiti di pubbliche funzioni..
E infine, pochi mesi fa, nel momento di massima debolezza della credibilità della magistratura, una nuova modifica per rendere ancora più stretti i limiti di applicabilità dell’abuso di ufficio.
Dal luglio del 2020, infatti, è stata abolita la possibilità di contestare come reato le decisioni connotate da discrezionalità.
Ciò vuol dire, in sostanza, che ogni volta che una decisione politica o amministrativa implichi una scelta non imposta esplicitamente da una norma di legge, tale decisione non potrà mai essere definita come abuso di ufficio.
Se non siamo all’insindacabilità dell’azione politica poco ci manca.
La giustificazione di questa nuova stretta sul 323, bisogna però dire, ha un suo fondamento: è stato detto, non a torto, che i pubblici funzionari hanno da tempo preso la perniciosa abitudine di non prendere decisioni per non incappare nelle maglie della giustizia.
Una sorta di “gestione della cosa pubblica difensiva”, analoga alla nota “medicina difensiva” – quella che faceva scegliere prescrizioni e cure non in base all’efficacia sul paziente ma al minor rischio per il medico di finire denunciato in caso di esito infausto della cura – che funestava ospedali e cliniche fino a poco fa, finché una riforma della norma sulla colpa medica ha di fatto resi inoffensivi i controlli giudiziari penali anche su questo ramo della nostra quotidiana….
Il comunicato stampa diffuso dal Consiglio dei Ministri dopo l’approvazione dell’ultima modifica dell’abuso di ufficio ha esplicitamente indicato come ratio della modifica l’esigenza di “semplificazione dei procedimenti amministrativi”, la “eliminazione e velocizzazione di adempimenti burocratici” e soprattutto “semplificazioni procedimentali e di responsabilità”; il Presidente del Consiglio si è spinto ad affermare che per la ripresa del Paese dal Covid occorre “un allentamento delle responsabilità degli amministratori pubblici” con lo slogan “basta paura, conviene sbloccare”… pochi mesi dopo che lo stesso Governo aveva sbandierato l’esigenza opposta con il varo di una legge pomposamente intitolata “spazzacorrotti”.
Siamo dunque di fronte ad una nuova stagione dell’efficienza, con conseguente compressione dell’esigenza di controlli; la stessa “fisarmonica” la vivono da sempre, non a caso, le norme sugli appalti pubblici, che dimagriscono o ingrassano a seconda delle esigenze del momento, come certuni di noi che alternano periodi di diete feroci ad altri di rilassamento alimentare.
Sperando di non fare troppa indigestione.