Primo via libera al ricalcolo delle pensioni dei politici. Ma sono molti i motivi per cui potrebbe rimanere lettera morta
di Alessandro Alongi
Grazie a un’inedita convergenza Pd-Movimento 5 Stelle, martedì scorso la Commissione Affari costituzionali di Montecitorio ha licenziato, per il passaggio in Aula che dovrebbe avere inizio il 20 giugno, un testo condiviso volto ad abolire gli assegni vitalizi e i trattamenti pensionistici dei parlamentari e consiglieri regionali, per sostituirli con un trattamento previdenziale basato sul sistema contributivo analogo a tutti i lavoratori dipendenti delle amministrazioni pubbliche.
Tale risultato, a detta dei più, rappresenta qualcosa di molto singolare. Non tanto perché, per la prima volta nell’intera storia repubblicana, la materia previdenziale di deputati e senatori viene definita con legge ordinaria (prerogativa sino ad oggi regolata dagli Uffici di presidenza di Camera e Senato), ma quanto per il comune consenso delle due maggiori forze antagoniste su un tema così dibattuto. Anche se il risultato finale è tutt’altro che scontato.
Il nuovo testo tenta per la prima volta di stabilire un principio di buonsenso: le regole sulle pensioni dei politici devono essere le stesse di quelle di tutti gli altri lavoratori.
Soltanto quando il provvedimento diventerà legge, i parlamentari verseranno i propri contributi previdenziali direttamente presso un apposito fondo dell’INPS così da beneficiare, al compimento del 65° anno di età, di un assegno mensile calcolato, contrariamente ad oggi, con il metodo contributivo e non più retributivo, ovvero più versi, più avrai.
Addio, dunque, a pensioni privilegiate, ma assegni calcolati sulle effettive somme versate, con un’apposita previsione anti-casta: l’imponibile contributivo sarà determinato sulla base della sola indennità parlamentare, con esclusione di qualsiasi ulteriore compenso di funzione o somme accessorie.
Ulteriore problema a cui la proposta di legge tenta di porre rimedio è il cumulo dei vitalizi, frutto della somma di diversi incarichi politici maturati negli anni e lautamente retribuiti. Proprio per evitare ciò le nuove regole prevedono che la pensione del politico rieletto o nominato in un ente pubblico venga sospesa per tutta la durata del nuovo incarico.
Ma la vera e dirompente novità riguarda l’estensione delle nuove norme anche ai trattamenti previdenziali passati: il nuovo sistema contributivo si applicherà anche agli ex politici i quali percepiscono già oggi una pensione calcolata in base al vecchio sistema retributivo, previsione che ha già messo sul piede di guerra un drappello di ex onorevoli che, al grido di “i diritti acquisiti non si toccano” preannunciano già ricorso alla Corte Costituzionale.
Insomma, il traguardo si preannuncia difficoltoso e irto di ostacoli. Già l’approdo in aula dopo il favorevole della I Commissione, previsto per ieri, è slittato per far posto alla “manovrina” e non è ancora chiaro se l’avvio della discussione troverà spazio nei lavori d’aula della prossima settimana.
Forse, a ben vedere, i contrari alle nuove regole pensionistiche non dovranno scomodare le toghe della Consulta, potendo confidare nella stessa politica quale alleato prezioso: al Senato risultano già in essere numerose proposte di modifica, senza considerare lo scoglio del possibile voto segreto in aula, insieme alla previsione della fine anticipata della legislatura.
Lo slalom per un’autoriforma della politica, dunque, è appena all’inizio, ma cresce sempre di più la consapevolezza dell’importanza di traguardare in tempi brevi questo provvedimento che, se e quando approvato, potrebbe aiutare a restituire credibilità al sistema, colmando un inviso solco di disuguaglianza tra eletti ed elettori.