A cura di Matteo Barbanera
Lo scorso aprile il presidente Biden ha annunciato la fine dell’impegno americano in Afghanistan, dopo quasi 20 anni. Le truppe hanno iniziato a ritirarsi a partire da maggio e il giorno limite entro cui concludere l’operazione è stato fissato per l’11 settembre 2021, data simbolica e dal forte valore emotivo. All’annuncio del ritiro statunitense tutte le forze della Nato hanno risposto di conseguenza, compresa anche l’Italia, pronte anche loro a porre fine all’impegno militare. Si è aperta dunque una nuova fase di transizione in Afghanistan, con più interrogativi che certezze.
La prima e più evidente conseguenza, e anche la più preoccupante, che ha seguito l’annuncio del ritiro delle truppe occidentali è stata l’intensificarsi dell’offensiva dei talebani, la quale sta godendo di un nuovo slancio e di un ritrovato vigore e che piano piano sta portando sotto il controllo del gruppo islamico fette sempre più consistenti di territorio afghano, soprattutto nella parte nord.
A maggio i rappresentanti del governo afghano e i talebani si sono incontrati a Doha, a cui poi è seguito un’ulteriore incontro a inizio giugno. La proposta statunitense per stabilizzare l’area prevedeva un accordo di pace basato su un nuovo governo ad interim composto anche da rappresentanti dei talebani, ma per il momento la diplomazia non ha portato a nessun risultato concreto. Anche perché i talebani stanno avanzando senza troppa difficoltà e conquistano territori a volte senza neanche sparare un colpo. A nulla è servita la minaccia dell’attuale presidente Ashraf Ghani di arrestare chiunque collabori con i talebani.
Il governo di Kabul appare accerchiato e incapace di garantire l’adeguata sicurezza alla popolazione civile e di respingere l’offensiva talebana, mentre il ritiro delle truppe straniere, come prevedibile, sta portando a una situazione di crescente incertezza interna. Il rischio concreto è quello di una nuova guerra fratricida con i talebani, che sarebbe una minaccia sia per la stabilità internazionale che per la popolazione civile afghana. L’inasprimento del conflitto interno porta come conseguenza anche l’inevitabile aumento dei profughi.
Gli Stati Uniti, consapevoli dei rischi che derivano da una ritirata così veloce, hanno approvato due importanti stanziamenti di fondi in favore del governo afghano per provare a rafforzare la legittimità e la posizione di quest’ultimo agli occhi della popolazione. Si tratta della fornitura di 300 milioni di dollari all’esecutivo di Kabul per favorire la lotta corruzione e lo sviluppo economico. A questo va aggiunto un ulteriore stanziamento di circa 250 milioni di dollari con lo scopo di migliorare soprattutto i servizi igienici e la fornitura d’acqua. Tuttavia, al momento, il tentativo americano di provare a indebolire i talebani tramite fondi consegnati al governo di Kabul non sta portando i risultati sperati.
L’8 giugno il Ministro della Difesa Lorenzo Guerini era a Herat, in Afghanistan appunto, per la cerimonia di ammaina bandiera del Contingente italiano della missione NATO Resolute Support, evento che di fatto ha posto fine alla presenza italiana nell’area. Sono tornati a casa 500 soldati italiani mentre restano, per il momento, solo i genieri per smantellare le strutture.
Anche Pechino guarda con interesse alla questione afghana. Un Afghanistan senza la presenza dei militari occidentali rappresenta una potenziale fonte di instabilità regionale. Da qui la volontà di tenere sotto controllo lo scenario afghano per evitare una possibile minaccia, anche e soprattutto tenuto presente la vicinanza con la regione dello Xinjiang, abitata dagli Uiguri, etnia turcofona e soprattutto di religione islamica, che non pochi problemi sta creando al governo di Pechino.
Per quanto visto fino ad ora, il ritiro delle truppe occidentali è sembrata una fuga disorganizzata, senza un vero piano che garantisse stabilità al paese, soprattutto in virtù del fatto che i talebani non sono un attore affidabile con cui dialogare. Ritirarsi dall’Afghanistan non può voler dire abbandonare il paese a se stesso e ai suoi problemi interni, che derivano in parte anche da 20 anni di occupazione occidentale.