What happens? Ce qui produit? Was geschieht? Dalla fine della pandemia negli uffici della risorse umane, americani, inglesi ed europei questa è la frase più diffusa: che succede?
Dopo mesi di chiusura degli uffici e di lavoro da casa con riunioni sulle varie piattaforme, corsi ed esami a distanza il ritorno al lavoro svela decine di migliaia di dimissioni, tutte con un fattore comune definito clinicamente burnout.
Letteralmente i lavoratori intermedi da quelli di concetto ai quadri e più in generale medici, infermieri, operatori sociali semplicemente si fermano e rimeditano le priorità della vita. Le libere professioni barcollano insieme al lavoro autonomo in genere, certo, queste più per la crisi pandemica ma anche per scelta di ricerca di un compromesso al ribasso, certezza della minestra in tavola, rispetto a sogni di gloria e prosperità oggi concretamente non realizzabili.
Il fenomeno in tempi di crisi economica può sembrare illogico anche perché in molti casi non si tratta di una fuga da un impiego ad un altro più appagante, più semplicemente di uno stop, garantito da un sistema di welfare che il mondo occidentale ha costruito e che con la pandemia è stato seriamente minato nella sua sostenibilità. Fatto è che i numeri cominciano ad essere preoccupanti e per alcune realtà aziendali si rischia a breve la paralisi per l’impossibilità di colmare i posti vuoti.
Sembra incredibile, ma fin dall’inizio della pandemia abbiamo assistito all’ascesa dei tagliatori di teste a capo degli uffici risorse umane, abbiamo dovuto registrare e sanzionare al livello giuslavoristico il mobbing, ed oggi, contra, assistiamo, almeno negli Usa, a premi incentivanti per convincere le persone a lavorare.
I fattori da investigare sono molti. La competizione esasperata imposta dalla globalizzazione ha spostato dai vertici aziendali ai livelli inferiori la pressione di continui spostamenti dell’asticella degli obiettivi, spesso onirici ed irrealizzabili; la pandemia ha di certo fermato questa corsa, anzi in molti impiegati di concetto è maturata la consapevolezza di un’inutilità intrinseca delle proprie mansioni con il fermo imposto dalla pandemia e la modifica delle procedure interne che hanno svuotato la mansione.
Un cameriere ha scoperto che deve riconvertirsi in fattorino, il cassiere di banca è ridotto all’assistenza di quei pochi anziani incapaci di gestire il conto corrente on line e così via. Ecco subentrare una sorta di rassegnazione mista ad una depressione legata ad un futuro non più luminoso, ma incerto.
Yuval Noah Harari, un filosofo israeliano, già nel 2018, con il suo libro “21 lezioni per il XXI secolo“ in realtà aveva già preconizzato quanto cominciamo oggi tutti a percepire. Il messaggio superficiale che se ne può ricavare senza un background di preparazione filosofica è che il processo di progressiva sparizione del lavoro è irreversibile, se nel secolo scorso, dice il filosofo, i conducenti di carrozze sono diventati tassisti, per molti di noi il futuro non consentirà questa mutazione della mansione, moltissimi faranno la fine dei cavalli esclusi dal lavoro dalle macchine agricole, dai camion e dalle automobili.
Sembra un messaggio disperato, ma è un warning, utilissimo che occorre interpretare consapevolmente puntando su una ricerca di un nuovo senso della vita, mettendo al centro di nuovo l’uomo e la sua manualità, curiosità e coraggio competente.
Far studiare un figlio da medico o ingegnere informatico non significa garantirgli un futuro brillante, perché informazioni e conoscenza, con l’avvento della A.I. (Artificial Intelligence) renderanno obsolete certe prerogative di alcune professioni.
In quelle citate il medico avrà una diagnosi precisa da un computer in grado di esaminare i dati diagnostici con tutta la casistica medica planetaria e di tutti i tempi. L’ingegnere informatico si troverà superato a breve nella programmazione proprio da quell’intelligenza artificiale che avrà aiutato a realizzare e ad implementare.
In pratica, entrambi saranno operai specializzati in grado di far funzionare macchine che faranno il lavoro per il quale hanno studiato. Quale il ruolo dell’uomo nel futuro?
Tornerà di moda un umanesimo critico e la ricerca di cultura allo stato puro e filosofia per indirizzare e fare scelte per l’umanità in cammino verso il futuro ed una probabile era di colonizzazione spaziale.
Leggere il presente come un nuovo Medioevo non è quindi negativo di per sè, purchè l’uomo, la sua empatia con gli altri uomini torni al centro, forse la scelta giusta è governare la transizione tecnologica in chiave umanistica e non economica.
Il burnout è una delle spie di questo cammino iniziato, purtroppo non tutti riusciranno a riemergere dalla depressione lavorativa, ma il messaggio, anche per le aziende, la politica e i sindacati è chiaro e forte: le categorie marxiste e liberiste che si sono contrapposte volgono al termine come i concetti stessi di capitalismo e comunismo. La comunità umana terrestre marcia verso un futuro di oltre 10 miliardi di individui e di risorse da condividere ed un concetto di salario e lavoro che va ripensato.
Oggi si parla con insistenza di dittatura con le limitazioni imposte dalla pandemia, di grande reset, di decrescita felice, ma occorre elaborare il tutto con prospettive filosofiche e verificare che la nostra libertà è dovuta scendere da una giostra che ci portava all’autodistruzione, ora bisogna vigilare che la rinuncia riguardi tutti e non che si punti, come sembra purtroppo, alla repressione dei più in favore di pochissimi.