Il turno di ballottaggio per le comunali del 14 giugno ha rappresentato l’ultima elezione del 2015, oltre che un delicato passaggio per la politica italiana. Salvo clamorosi accadimenti (in estrema sintesi, eventuali votazioni a Roma in caso di dimissioni di Ignazio Marino sulla scia dell’inchiesta-scandalo Mafia Capitale) per l’anno in corso non sono previste altre elezioni rilevanti. E tutti i partiti dovrebbero sfruttare questa pausa elettorale per fare un accurato e sincero checkup delle proprie performance.
Il risultato delle regionali (5 a 2 in favore del centrosinistra) sommato a quello (difficilmente classificabile) delle amministrative non può lasciare veramente soddisfatto nessuno dei partiti italiani, sia nel caso in cui l’esame si fermi al solo dato dei voti ottenuti, sia nel caso in cui l’analisi venga allargata allo spaventoso (ma ormai quasi strutturale) dato dell’astensionismo.
Il premier Matteo Renzi non ha fatto campagna elettorale per il ballottaggio di domenica 14 giugno, così come non ha quasi fatto campagna elettorale per il primo turno delle amministrative. La sua partecipazione attiva alla campagna elettorale è rimasta pressoché limitata a quella per le regionali del 31 maggio. Nelle sette Regioni in cui si andava al voto per il rinnovo di Giunta e Consiglio, il PD (più precisamente, la coalizione di centrosinistra) ha conquistato i posti di governo in cinque perdendo “solo” in due. Al netto della sconfitta a sorpresa in Liguria (frutto anche della sciagurata gestione delle primarie di coalizione e della successiva candidatura di Pastorino sostenuto da SEL, dai partiti di estrema sinistra e dal fresco ex PD, Pippo Civati) e di quella annunciata – e in un certo senso già metabolizzata – in Veneto, il “fattore Renzi” è risultato decisivo dovunque ai fini dell’esito positivo tranne che in Puglia, dove il candidato Emiliano aveva la già vittoria in pugno come Zaia in Veneto. Il dato che emerge quindi dalla somma dei risultati delle regionali e delle amministrative è che, come commenta Massimo Cacciari, “il PD dimostra ancora una volta che dove non c’è Renzi di fatto non esiste”. La prova provata di questa condizione viene dall’esito del ballottaggio a Venezia: la sconfitta di Felice Casson ha decretato il passaggio a un’amministrazione di centrodestra di una città che per 21 anni è stata governata da giunte di centrosinistra. Il nuovo sindaco sarà Luigi Brugnaro, che nel secondo turno è riuscito a catalizzare 19mila voti in più rispetto al primo turno, a dispetto di Casson che ha guadagnato solo 1000 voti. Il candidato del centrosinistra non è riuscito ad attrarre i voti degli indecisi e degli elettori del M5S, mentre Brugnaro ha sfruttato al secondo turno la ritrovata compattezza dei vari partiti espressione del centrodestra.
Fare discendere dall’analisi del voto comunale (o regionale) conseguenze al livello nazionale è stata un’opzione praticata in passato solo quando la leadership a Palazzo Chigi non era molto forte. Non è questo il caso di Renzi. Ma sfruttare il dato locale per avviare una riflessione di respiro nazionale potrebbe rivelarsi molto utile, per tutti i partiti e per tutti i leader o aspiranti tali.
Renzi dovrebbe ritrovare il dinamismo e la volontà di innovare e rinnovare che lo hanno caratterizzato nella fase di ascesa interna al partito e poi al Governo. Dovrebbe evitare di sottovalutare troppo il malcontento di quella fetta di elettorato del PD che non è disposta ad “accettare” troppe forzature sui lavoratori di quei settori storicamente cari al centrosinistra (su tutti quelli del comparto scuola). Renzi dovrebbe infine ricordare più spesso a se stesso di essere anche segretario nazionale del partito di maggioranza relativa in Parlamento. E se vorrà veramente fare qualcosa per il bene del PD, dovrà risolutamente mettere le mani nel PD per emendarlo in profondità e lavorare alacremente sulla capacità del PD di mettere solide e profonde radici nel territorio, evitando le insidie del partito liquido (sulla falsariga dell’esperienza negativa di Forza Italia con Silvio Berlusconi, legata a doppio filo al destino del suo leader) e scansando il pericolo che potrebbe derivare da un eccessivo snaturamento di un partito di centrosinistra che per anni ha lottato contro l’eccessiva personalizzazione della politica. Perché un vero leader si distingue anche dalla sua consapevolezza di non essere eterno, indispensabile e dalla sua capacità di preparare la sua successione.