Il voto del 5 giugno ha confermato l’assetto tripolare del sistema politico italiano. Incognita effetto “nemico” sul secondo turno
Le elezioni comunali di domenica 5 giugno 2016 hanno fornito, in attesa degli esiti dei ballottaggi del prossimo 19 giugno, delle importanti indicazioni sulle caratteristiche attuali (e potenzialmente future) del sistema politico italiano.
In primo luogo, le sfide di Roma, Milano, Napoli, Torino e Bologna hanno confermato quanto già suggerito dalle votazioni Politiche del 2013 ed Europee del 2014: il bipolarismo della cosiddetta Seconda Repubblica (fondato sulla contrapposizione post 1994 tra centrosinistra e centrodestra) non esiste più, poiché superato in via definitiva da un assetto tripolare, dove i candidati di Partito Democratico, Movimento 5 Stelle e delle differenti combinazioni del fronte Forza Italia-Lega Nord-Fratelli d’Italia si contenderanno tra circa due settimane il governo delle principali città del Paese. Unica eccezione rilevante la città partenopea, che vedrà una replica del ballottaggio del 2011 tra l’indipendente Luigi De Magistris e lo sfidante di centrodestra Gianni Lettieri. La principale tendenza evidenziata dall’ultima tornata amministrativa, al di là delle specificità di ogni contesto locale, consiste proprio nell’aumento del numero di Comuni di medio-grandi dimensioni che dovranno ricorrere al secondo turno per eleggere i propri Sindaci e Consiglieri Comunali. Limitandoci ai capoluogo menzionati, in nessuno dei casi un candidato ha sfiorato la quota necessaria per designare il primo cittadino (il massimo è stato raggiunto con il 42,8% da De Magistris), segno della frammentazione in schieramenti ormai scelta dagli elettori italiani.
Una frammentazione in tre poli (PD, M5S e forze di centrodestra), segnata inoltre dalla sostanziale incomunicabilità tra i sostenitori di ognuno di essi, dal momento che questi gruppi di elettori risultano condividere quasi esclusivamente l’avversione per un “nemico” in comune, come Matteo Renzi nel caso degli elettori pentastellati e di FI-Lega-FdI o le figure più in vista dell’attuale centrodestra (Silvio Berlusconi, Matteo Salvini e Giorgia Meloni) per i votanti di PD e M5S. E proprio in queste reciproche avversioni risiede il fattore che risulterà decisivo per gli esiti dei ballottaggi: chi appoggeranno gli elettori 5Stelle a Milano e Bologna? E, specularmente, quali saranno le scelte dei sostenitori di centrodestra a Roma e Torino? Risulta difficile azzardare previsioni in merito, ma certamente ciò che si verificherà il 19 giugno darà un’anticipazione di ciò che alle prossime elezioni Politiche potrebbe verificarsi al secondo turno previsto dall’Italicum su scala nazionale, qualora nessuna delle liste raggiungesse subito il 40% dei consensi.
Dal lato delle dinamiche interne ai partiti, i risultati offerti dalle urne rappresentano la prima vera battuta d’arresto per il Partito Democratico renziano, relegato al minimo storico dai cittadini romani (circa 70 mila voti persi rispetto alle Comunali che nel 2013 portarono all’elezione di Ignazio Marino), pressoché scomparso dalla scena politica napoletana e in calo di consensi perfino in due roccaforti come Torino e, addirittura, Bologna. Certamente, non ha giovato ai risultati del PD il clima di polarizzazione sulla propria figura imposto dal Presidente del Consiglio in vista del referendum costituzionale di ottobre (l’unico appuntamento elettorale ritenuto essenziale dal premier), ma è altrettanto chiaro che un esito di questo tipo non può non trovare una parte di spiegazione nello stato confusionale in cui versa il partito, ormai relegato a livello nazionale e locale alla funzione di strumento di promozione diretto o indiretto del consenso personale di Renzi. Sul fronte del Movimento 5 Stelle, è innegabile che i consensi ottenuti da Virginia Raggi nella Capitale e da Chiara Appendino a Torino costituiscano un punto di svolta per la formazione grillina, che è sempre più difficile identificare come una forza politica esclusivamente di protesta, ma i deludenti risultati riportati dai candidati di Milano e Napoli impediscono di considerare quella dell’M5S un’ondata di consenso nazionale, in quanto le loro migliori performance sono comunque riconducibili a contesti segnati da amministrazioni uscenti non efficaci e sofferenze sociali diffuse. Nel campo del centrodestra, se il 40% di consensi ottenuto nel capoluogo lombardo dal moderato Stefano Parisi potrebbe far pensare ancora a un’irrinunciabilità di Berlusconi come federatore di una coalizione che vada da Area Popolare alla Lega Nord, un risultato come quello riportato da Meloni a Roma (nettamente più votata del suo competitor Alfio Marchini sostenuto da FI) segna l’inizio di quello che potrebbe essere un cambio di equilibri, in termini di leadership, tra l’ex premier e il tandem lepenista Salvini-Meloni.
In conclusione, non si può evitare di rimarcare che i dati dell’affluenza registratisi nelle principali città del Paese (in nessuno dei casi si è raggiunto il 60% di votanti) descrivono ancora una volta la disaffezione di milioni di italiani nei confronti della classe politico-partitica. Una disaffezione, che potrebbe spingere definitivamente la partecipazione elettorale in Italia sui livelli tipici dei sistemi anglosassoni (intorno al 50% degli aventi diritto). Se si pensa che gli italiani sono sempre stati un popolo di elettori, questo lento ma inesorabile declino potrebbe segnalare uno stato di precaria salute del nostro assetto democratico, di certo non aiutato da personalizzazioni e radicalizzazioni del dibattito politico, oltre che da divisioni dell’elettorato in tifoserie.