Per gli induisti, l’avatar rappresenta la discesa e l’incarnazione di una divinità, mentre più semplicemente per gli informatici esso consiste in una rappresentazione grafica e virtuale di un visitatore di sito web.
Con l’avvento del Metaverso – la realtà 3D ideata da Facebook e che consiste proprio in un mondo parallelo popolato da rappresentazioni di persone reali in formato grafico – gli avatar sono tornati alla ribalta, soprattutto per le loro malefatte nell’ambiente virtuale.
Seduti sul divano di casa, infatti, i giocatori possono – tramite la strumentazione informatica a loro disposizione – far compiere tutto quello che vogliono ai loro alter ego digitali: non solo cose assolutamente lecite come effettuare acquisiti negli shop online presenti nelle città del Metaverso, oppure intrattenersi in piacevoli conversazioni in qualsiasi lingua o esplorare qualsivoglia angolo del mondo (fedelmente riprodotto dall’algoritmo), ma anche cose meno encomiabili, come molestare altri avatar, danneggiarli o – peggio ancora – ucciderli.
La feccia, insomma, non si esaurisce solo in questo mondo. Ma anche nell’altro, seppur virtuale. In tale nuovo contesto, sarà possibile applicare le leggi penali esistenti sulla terra anche in questa realtà eterea?
Se lo è chiesto, nei giorni scorsi, il quotidiano britannico The Sun che, sull’argomento, ha intervistato diversi esperti. Sarebbe molto difficile perseguire un utente anonimo e provare che l’utente ha commesso l’atto secondo Patrick Roberts, del Roberts Law Group. Per l’avvocato americano l’unica via perseguibile sarebbe quella di una punizione “virtuale”, come la disattivazione dell’account o magari la limitazione di alcune funzionalità dell’avatar stesso. «Dopotutto le persone si uccidono a vicenda nei videogiochi senza conseguenze. Non riesco a immaginare conseguenze penali nel mondo reale per il crimine virtuale» ha sentenziato il legale.
Di analogo tenore anche John Bandler, docente di sicurezza e criminalità informatica alla Elisabeth Haub School of Law di New York secondo cui la protezione degli avatar attraverso il diritto penale «non potrebbe funzionare». Secondo l’esperto «Non credo che le leggi penali dovrebbero essere modificate per proteggere gli avatar come persone. Non avrebbe senso e abbiamo abbastanza già sfide sul proteggere le persone», ha detto, tranchant, Bandler.
La domanda di fondo, probabilmente, è se gli avatar siano o meno persone, incarnando esseri umani nella realtà cyberspaziale. A dimostrazione degli effetti prodotti sui proprietari, pare che tali prodotti informatici abbiano tutte le caratteristiche per esserlo.
Lo scorso dicembre una sperimentatrice ha lanciato il proprio grido di allarme affermando che, mentre si aggirava su Horizon Worlds (la piattaforma sperimentale “metaversica” di Facebook), è stata avvicinata da un avatar sconosciuto che l’ha palpeggiata. Seppur la violenza fosse avvenuta sull’avatar e non sulla ragazza in carne ed ossa, l’aggressione ha molto turbato la protagonista (reale) della vicenda.
Dopo tale episodio, Meta (il nuovo nome di Facebook) è corsa ai ripari, introducendo una “distanza di sicurezza” (Personal Boundary, così è stata chiamata tale funzionalità), spazio predefinito (e non modificabile) che impedisce che gli avatar si trovino a distanza inferiore di quattro piedi. “Abbiamo scelto di proporre la distanza di sicurezza come impostazione predefinita perché pensiamo che aiuti a stabilire delle norme di comportamento, il che è importante per un ambito relativamente giovane come quello della realtà virtuale” si legge in un comunicato diffuso da Meta. Nel Metaverso, insomma, continueranno ad applicarsi le rigide prescrizioni del periodo pandemico terrestre, con l’auspicio di riuscire a debellare in tale maniera un altro tipo virus, tanto virulento quanto quello sanitario, ovvero la violenza e la prepotenza.