Per molti, Andy Warhol è ancora – e solo – l’artista autore delle celeberrime riproduzioni dei barattoli di zuppa Campbell. Al più, il tale che ha detto qualcosa riguardo l’essere famosi a turno per un quarto d’ora.
Non è necessario però diventare storici dell’arte o studiosi del linguaggio visuale, per scoprire che dietro il santino della pop art – divenuto icona dopo averne lui stesso create – c’è molto di più.
La nuova mostra che si apre il 1 giugno presso il Museo Civico della Laguna Sud di Chioggia – “Andy Warhol: an american artist” – per esempio, è forse la via più semplice per addentrarsi fra le tappe del percorso che ha reso Warhol inventore di un nuovo paradigma artistico, sfaccettato e stratificato.
Le 50 opere che compongono l’esposizione, selezionate dal curatore della mostra Matteo Vanzan, assumono infatti un particolare rilievo adesso che, decenni dopo la provocazione warholiana per cui anche l’arte poteva (e doveva) diventare un prodotto “di consumo”, una simile concezione non è più avanguardia, ma solida accademia, consolidata visione allargatasi ben oltre il campo dell’attività a fini estetici. Se prima, infatti, la Factory di Warhol – inutile ribadirne il “nomen omen” – faceva da scandaloso punto di riferimento per la rivoluzione, oggi i suoi antichi lavori appaiono come le pietre miliari sulla via che ha portato alla imminente dematerializzazione (alcuni direbbero ritorno inevitabile al mondo delle Idee ) in senso digitale dell’opera d’arte. Comunque la si pensi, una questione ormai ineludibile.